martedì 7 maggio 2013

Intellettuali italiani: Cesare Vasoli (1924-2013).


Un mese fa, a 89 anni, è morto Cesare Vasoli, storico della filosofia. Una sua ex allieva ha pubblicato su Internet una lettera che egli le scrisse nel novembre 1999. La lettera è molto interessante,  e io la riporto quasi per intero.
“…Gli anni sono passati con una velocità incredibile e adesso che sto facendo una sorta di bilancio del mio lavoro e, in sostanza, della mia vita, mi trovo stranamente lontano da me stesso e da oggi; e torno anche io ad anni ancora più lontani ed ora inimmaginabili, dopo mezzo secolo di storia così torbida, oscura, popolata da ogni parte di barbarie e desolazione. Ricordo i giorni in cui, insieme a uno dei miei più cari amici, oggi scomparso, accompagnavamo Salvemini nelle sue brevi passeggiate da via San Gallo a Piazza Indipendenza e le lunghe discussioni che correvano tra me e i miei compagni, con le speranze di un futuro che si è rivelato così ingannevole.
E ricordo i tanti volti che oggi non ci sono più, le attese che si sono consumate nel nulla e i nostri ingenui entusiasmi di poveri ragazzi che volevano rifare il mondo, in mezzo alle miserie e al freddo di quegli anni di guerra, eppure così ricchi per noi di meraviglia e di miti.
Oggi, dopo quarant’anni di scuola e dopo aver assistito a tanti mutamenti di generazioni, mi chiedo quali sono stati i nostri errori e perché siano così dure le giuste, ma terribili, lezioni della realtà.
E penso che forse occorrerebbe più sagacia e accortezza e meno indifese speranze, una conoscenza degli uomini e delle cose che non fosse quella così artificiale di chi resta, per tutta la vita, chiuso nel gran ventre della scuola
  [la sottolineatura è mia]. Ma la vita è già passata ed è inutile persino e solo doloroso porsi queste domande.
Negli ultimi dieci anni ho avuto un gruppo di allievi e allieve davvero eccezionali, due o tre addirittura di notevole ingegno. E provo davvero molto dolore a pensare che l’attuale condizione delle università, sempre in mano a piccole , feroci coterie mafiose, lascia loro poche speranze di lavorare come potrebbero e dovrebbero.
Ma anche per questo è troppo tardi!...”.

La lettera è bella, ma concede troppo al patetico. Nonostante una rispettosa comprensione per l’uomo (molto meno per l’intellettuale), sono disturbato dal sentimento di sconforto e di resa che vi domina. Da un filosofo mi sarei aspettata, pur nei limiti di una lettera privata, una autocritica più lucida e coraggiosa. La parabola di Vasoli mi pare, invece, esemplare del percorso seguito da tanti miglioratori del mondo, che hanno iniziato con grande baldanza e hanno concluso nella rinuncia o nella disperazione. 
Nella sua introduzione all’edizione Laterza del ‘Mondo come volontà e rappresentazione’, di oltre quarant’anni fa, Vasoli, con la sicurezza e le illusioni del progressista, trattava Schopenhauer, dispregiatore dell’ottimismo, come un reazionario. E, ancora nel 1991, nella sua lunga introduzione al saggio 'Il fondamento della morale', sempre di Schopenhauer, Vasoli afferma che l'ambiguità del filosofo resta irrisolta, perché egli rimane "del tutto ostile ad ogni proposta di effettiva trasformazione del mondo umano". Non mi sembra un caso che Vasoli usi la parola 'ostile', che allude a una volontà nettamente contraria, decisa con intenzione a respingere "ogni proposta di effettiva trasformazione del mondo umano". La parola 'scettico', cioè privo di fiducia nelle possibilità di successo di un cambiamento migliorativo, mi sarebbe sembrata più opportuna, ma Vasoli deve aver pensato che fosse una definizione debole e troppo poco caratterizzante dell'antiprogressismo che voleva condannare. Aggiunge Vasoli che per Schopenhauer "la condizione umana e sociale retta soprattutto dalla ferrea legge dell'egoismo e della più crudele alienazione, è per sempre riconosciuta come un dato perenne, immutabile della 'natura' umana, una fatalità a cui si può sfuggire solo in virtù di un'esperienza etica privilegiata e di una superiore, ineffabile intuizione mistica". Quale sottile sentimento di superiorità politica e culturale c'è nei giudizi del pur mitissimo professore fiorentino! Ora, invece, di fronte alla sconfitta umana e intellettuale di questo democratico progressista, il filosofo di Danzica, con il suo energico disprezzo per l’ottimismo, appare  un combattente che non si arrende mai. Un’altra fondamentale differenza fra lui e i fragili  filosofi in cattedra è che Schopenhauer si era fatto, come egli disse di se stesso, martire della propria causa. E martire della propria causa si fece anche Simone Weil, anche lei  filosofa senza cattedra, che a ventiquattro anni, nel 1933, scrisse un disincantato e mirabile saggio sul comunismo sovietico, a cui aveva posto come epigrafe due versi di Sofocle: “Io non ho che disprezzo per il mortale / che si riscalda con delle speranze vuote”.

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