venerdì 18 novembre 2011

Adriano Sofri legge (contro voglia) Margaret Mazzantini ("Mare al mattino").

Fu una delusione scoprire, anni fa, che una donna come Margaret Mazzantini, bella di una grazia preraffaellita, scriveva libri così brutti. Fu anche irritante constatare che la sua prosa enfatica e viscerale è il modo con cui si esprimono oggi i cosiddetti ceti medi riflessivi. Walter Veltroni, per esempio, e i lettori di Repubblica che corrispondono con il professor Umberto Galimberti, scrivono più o meno nello stesso modo esagerato e intestinale. Certo la colpa di questa moda non è della Mazzantini. Senza dubbio lei stessa ne è stata influenzata. Questo sbracamento del linguaggio, che è uno sbracamento dei sentimenti e del senso della realtà, viene da molto lontano: dalla contestazione del '68, dal femminismo, la psicanalisi, la fine delle ideologie, l'edonismo consumistico, il linguaggio del corpo, ecc. ecc. Non sarebbe esatto dire che questo linguaggio è insincero. Chi lo usa è probabilmente sincero e in buona fede. Ma questo linguaggio alla moda è peggio che insincero, perché offre alle persone che sono svuotate dalla banalità quotidiana e sono incapaci di valorizzare le piccole emozioni di tutti i giorni, la possibilità facile di simulare, con sincerità, grandi sentimenti. Siccome tutto questo mi è chiaro, non considero un avvenimento l'uscita dell'ultimo libro della Mazzantini, “Mare al mattino”. Considero, piuttosto, un avvenimento (per quel che ne so) la specie di recensione a tutta pagina che Adriano Sofri, sulla Repubblica di giovedì 17 novembre (p. 47), dedica al libro della Mazzantini. Probabilmente per non rinunciare completamente alla propria intelligenza, piuttosto che una argomentata recensione, Sofri si limita furbescamente a scrivere una lunga parafrasi del libro, che occupa il 99% del suo articolo. Il lettore, però, ha tutto il diritto di credere che questa parafrasi sia piena di ammirazione, perché Sofri ha detto immediatamente, già alla terza riga, che il libro è bello. Subito dopo questo giudizio, aggiunge una di quelle frasi contorte e fasulle che nel mondo leggero di Sofri, fatto di sentimenti di carta, servono da snodo o da cerniera, per giustificare un passaggio forzato e dare un velo di coerenza ai suoi discorsi sempre molto volatili. “Se non avessimo voglia di raccontare a un altro, agli altri, quello che proviamo e pensiamo, non avremmo bisogno della paroletta 'come', la più infantile e la più poetica. E' grazie a lei che il racconto può rivaleggiare con la pittura”. E qui comincia la parafrasi di Sofri, che è solo un collage di immagini mazzantiniane. “Il cielo di stelle come il mantello di un pascià. I dromedari come logore navi di pirati. Riccioli di vento come spiriti in viaggio che pizzicano la sabbia. Danzatrici del ventre come serpi assonnate...”, ecc. ecc. Dopo aver bevuto, con apparente piacere, questa brodaglia, perfino un ammiratore come Sofri ha un soprassalto di rigetto e infila fra due parentesi questa osservazione. “Ci sono passi troppo gonfi, per me: 'il suo cuore che si gonfia così tanto che deve tenerselo stretto con tutte e due le mani per non farlo cadere in terra, nella bacinella di ferro' ”.

Nessun commento: