Nel 1940 Benedetto Croce pubblicò, in 'Poesia antica e moderna', un nuovo commento alla poesia 'A se stesso', confermando e ampliando il giudizio che ne aveva già dato quasi vent'anni prima. “Perché il breve canto 'A sé stesso' del Leopardi, pur così chiaro alla mia mente, non mi si amplia poeticamente nell'anima? Vedo in esso il Leopardi che [non è di troppo questo 'che'?] in uno dei suoi momenti di estrema angoscia e desolazione, quando non trova più sulla terra niente a cui afferrarsi per non affogare nel tedio disperato, rifarsi presenti, poiché altro non può, i concetti della sua filosofia, riconfermarli e trarne il conseguente atteggiamento volitivo formulando l'ultimo e definitivo suo proposito e programma di vita, di una vita che vuol essere nell'atto stesso morte... l'attuazione di un suicidio interiore”. Quanta ristrettezza di sentimento c'è nella frase: “in uno dei suoi momenti di estrema angoscia e desolazione”! Il filosofo crede di essere comprensivo, si sforza di esserlo, ma i limiti della sua psiche gli impediscono di andare al di là di una comprensione episodica e superficiale che sembra derisoria di fronte alla immensità del dolore. Croce procede poi all'autopsia di questi sedici versi, dividendoli in quattro parti, che lui definisce, con termini da notaio o da questurino, “accertamento della condizione a cui [Leopardi] è pervenuto, teoria, argomentazione, esortazione a sé stesso”. Il componimento, secondo Croce, oscillerebbe soprattutto fra gli accertamenti notarili e le definizioni teoriche. La poesia sarebbe del tutto esclusa. L'inizio di questo saggio di Croce mi sembra stupefacente: “Perché il breve carme del Leopardi non mi si amplia poeticamente nell'anima?”. Ma, mi chiedo, questo mancato ampliamento può forse essere portato come prova del fallimento poetico di 'A se stesso'? L'anima, seppur elevata, di Croce è forse l'unità di misura della riuscita artistica di un'opera? Croce non era fatto per comprendere la poesia di Leopardi. Era un uomo troppo ottimista, troppo olimpico e tranquillo. Sul suo ottimismo, a volte cieco, ho scritto (in questo Blog) nel commento alla Storia del regno di Napoli. Croce contrappone alla concezione leopardiana un pensiero di Goethe: “la vera poesia... libera, mercè di un'intima serenità e di un congiunto benessere, dai pesi terreni onde siamo oppressi”. Walter Binni, in 'La protesta di Leopardi', sottolinea questo fondo ottimistico-vitalistico-catartico del classicismo di Croce e afferma che la sua incomprensione del profondo valore ritmico di 'A se stesso' è assoluta (p. 147). Il filosofo napoletano continua il suo breve saggio in 'Poesia antica e moderna' polemizzando garbatamente con Francesco Flora. Questi, nel suo commento ai 'Canti' di due anni prima, aveva scritto di 'A se stesso': “La grandezza di questo poeta non è già nell'aver sofferto con una sprezzante disperazione i suoi mali (neppure i martiri son poeti per il martirio); ma nell'averli rappresentati come un momento universale dell'umana famiglia: aver fatto del suo dolore, in una sosta divina, la felicità lirica del suo animo e di tutti coloro che leggeranno, partecipi, i suoi versi”. Ma Croce non era uomo da lasciarsi influenzare dai giudizi altrui e ribadisce che Leopardi, nello scrivere questo componimento, “non ha avuto neppur la gioia del canto: rinunziando a tutto, ha rinunziato questa volta alla poesia propriamente detta, alle parole, alle immagini, ai ritmi poetici”. Quanta sicumera! Qualche anno dopo, nel 1944, Luigi Russo pubblicava un suo commento ai 'Canti', e nella interpretazione di 'A se stesso' aderiva con tale assoluta fedeltà ai giudizi di Croce, che l'introduzione alla poesia era costituita quasi solo da lunghi passi del saggio crociano. Forse è stato per il pentimento e il rimorso di un tale appiattimento, che Russo volle, successivamente, emanciparsi in modo definitivo dalla tutela culturale del Croce. Nel 1949, a causa di uno screzio (che era certo molto più di uno screzio) con il filosofo napoletano, pubblicò sulla rivista Belfagor un saggio, rispettoso nella forma ma implacabile e feroce, intitolato 'La collera del Vico e la stizza del Croce' (io l'ho letto in una raccolta di prose polemiche edita da Feltrinelli nel 1979). Russo giustifica il titolo del saggio, affermando che la stizza è “non una nota psicologica, ma proprio come una categoria del grande cervello del mio maestro, che nel suo vasto ed enciclopedico dottrinarismo trova spesso un muro, un ostacolo, ad intendere la più umile realtà e se ne adonta e indispettisce”. Le critiche di Russo a Croce sono profonde e generali e certamente esprimono, in una forma quasi rancorosa, un dissenso lungamente taciuto. La nuova temperie politica del dopoguerra deve aver sollecitato questa denuncia e liberato uno sfogo che spesso si appunta con antipatia anche contro atteggiamenti privati e comportamenti personali di Croce. “Il Croce, violento oppositore del clericalismo nero, ma molto di più del clericalismo rosso, bisogna lealmente riconoscere che è altresì un acceso clericale della sua filosofia, un clericale di se medesimo […] Ma il Croce in questi ultimi anni, sparito il Gentile, sparito l'Omodeo, sparito il De Ruggiero, molto volentieri si è tramutato... in un papa della storia, della critica e della politica. Noi non abbiamo mai amato i papi”. E Russo fustiga “quegli adulatori, quei cortigiani che glielo hanno fatto credere, portandolo in giro come 'il santissimo'”; che hanno approfittato “della sua innocenza e della sua onestà, di uomo umbratile vissuto sempre tra le quattro pareti del suo studio”. Perbacco! Sembrava che Russo volesse quasi assolvere Croce, con l'attenuante della sua 'innocenza'; ma qui gli dà un colpo mortale. E, proseguendo, non fa che rincarare la dose. Croce “ha avuto sempre questa particolare vocazione, di tribolare e di mortificare gli amici più devoti […] Tre autori della nostra letteratura sono rimasti per il Croce piuttosto inconditi criticamente: il Petrarca, il Leopardi, il Manzoni dei Promessi Sposi; ma io riverente verso il maestro non ho voluto neppure ricordare le deficienze della sua interpretazione del Leopardi e del Manzoni […] Senza dire che il dottrinarismo talvolta rende ciechi e porta a forme di critica generalizzante ed apocalittica (la boria dei dotti già morsa e ironizzata dal Vico). Russo riporta un lungo passo di un saggio di Croce, 'Monotonia e vacuità della storiografia comunistica, “dove il Croce in odio a Carlo Marx trascorre – ahimè – ad un generale giudizio negativo su tutto il popolo d'Israele […] Son passato a riflettere che la ferocia di questo giudizio contro Carlo Marx procede da quell'odio teologico che nel Croce è fortissimo, gelosia dottrinaria per un pensiero diverso dal suo e che nasce in lui non per un sentimento gretto di invidia, ma per una forma di tragico tormento per le personalità diverse dalla sua e ch'egli non riesce ad assimilare e a dominare […] Il Croce invano ha reagito contro questi due compagni filosofi [Gentile e Marx], che la Provvidenza vichiana gli ha attribuito per imperscrutato consiglio. Da un ventennio l'opera sua polemica è tutta uno sforzo per espellere dall'organismo mentale dei suoi seguaci e Gentile e Marx; e non vi riesce e ritorna alla carica con sempre più aspra violenza”. Ma “si direbbe, incalza Russo, che la filosofia del Croce abbia bisogno di essere integrata e fecondata sempre da un pensiero compagno ed avverso. Forse il crocianesimo puro darebbe come esito l'arcadia pura”.


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