Walter Binni nel 1950 pubblicava nel libro 'Tre liriche del Leopardi' una analisi di 'A se stesso' che, per quel (poco) che ne so, è l'analisi più bella che io conosca di quella poesia. Prima di lui, sia Croce che Fubini, Russo e Luporini avevano negato valore poetico a quel componimento. Solo Francesco Flora, nel suo commento (1938), aveva definito 'A se stesso' “uno dei canti più distaccati e più puri”. Secondo Walter Binni, che gli attibuiva una particolare, anzi decisiva, importanza, l'apprezzamento o la svalutazione di 'A se stesso' dà o nega la possibilità di capire non solo gli ultimi canti, ma anche la natura di fondo di tutta la poesia leopardiana ('La protesta di Leopardi', Sansoni 1973, p. 147). In 'Poesia e non poesia' (1922), Benedetto Croce scrisse un saggio su Leopardi che ha influenzato almeno per venticinque anni la maggior parte dei critici. Con il tono sicuro e imperturbabile di un pontefice massimo, Croce dichiarò che Leopardi era un uomo dalla vita strozzata e un escluso dalla vita. “Oh, se un raggio di sole avesse fugato dalle sue vene la malattia che lo avvelenava, disciolto il torpore che lo gravava! Egli sarebbe sorto in piedi e, con meraviglia più grande di quella che cantò nel 'Risorgimento', avrebbe guardato con nuovi occhi il mondo e veduto dissiparsi in lontananza i neri grovigli dei fantastici pensieri, e la forza di operosità, compressa in fondo a lui, si sarebbe dispiegata generosa e benefica”. Mi riesce difficile capire come considerazioni così superficiali possano aver avuto tanto peso sulla storia della critica. Croce nega che Leopardi avesse qualità teoriche di pensatore. “A lui mancava disposizione e preparazione speculativa, e nemmeno nella teoria della poesia e dell'arte... riuscì a nulla di nuovo e importante”. E per dimostrarlo, prima non disdegna di raccogliere e valorizzare i miseri casi della biografia leopardiana (“Si rammenterà il senso di delusione che l'Epistolario leopardiano produsse quando venne a luce. Dunque (si disse), codeste dottrine alle quali avevamo attribuito valore speculativo, non erano altro che il riflesso delle sofferenze e miserie dell'individuo? Delle infermità che lo travagliarono, delle compressioni familiari ed angustie economiche, del vano desiderio di un amore di donna non mai ottenuto? Ma, in verità, non sarebbe occorso aspettare queste rivelazioni biografiche o autobiografiche per avvertire la qualità di quel teorizzare”); poi imbastisce una lezioncina di filosofia elementare che è insieme superficiale e capziosa. “La filosofia, in quanto pessimistica od ottimistica, è sempre intrinsecamente pseudofilosofia, filosofia a uso privato, per la logica ragione che... di tutto si può dir bene o male, salvo che della realtà e della vita […] onde la lode largìta o il biasimo inflitto alla realtà non ha al suo fondo altra consistenza che quella di un moto passionale, cagionato da buono o cattivo umore, da lietezza, da leggerezza, da insofferenza, da capriccio...”. Confesso che questa lezioncina a me sembra contenere, come una favoletta, elementi di pura immaginazione. Esistono davvero filosofie pessimistiche o ottimistiche? cioè metodi di indagine che, per convinzione pregiudiziale o per inclinazione fisica e sentimentale degli indagatori, sappiano, già in partenza, quale sarà il risultato delle loro ricerche? Non dubito che esistano, ma chiamarle filosofie, per avere, subito dopo, ragione di declassarle a pseudofilosofie, non è un argomentare da filosofo. Queste pseudofilosofie sono piuttosto religioni o superstizioni, che non metodi applicati con rigore intellettuale. “La schietta e seria filosofia non piange e non ride, ma attende a indagare le forme dell'essere, l'operare dello spirito...”. D'accordo: la vera filosofia non piange e non ride, ma è pur mossa e alimentata da qualche sentimento, da qualche passione. L'onestà del filosofo non consiste nel non avere passioni, ma nel riuscire (anche solo in parte) a superarne i limiti. Croce, dalla sua cattedra, nega a Leopardi questa fondamentale onestà e afferma che le sue generalizzazioni sono arbitrarie. Vedremo più avanti quanto Croce stesso sia capace di 'non piangere e non ridere' (soprattutto di non ridere). “... di tutto si può dir bene o male, salvo che della realtà e della vita", scrive il fortunato e agiato proprietario terriero Croce. Per lui non hanno alcun valore conoscitivo ma solo passionale sia la 'lode largìta' che il 'biasimo inflitto alla realtà'. Questi due sostantivi, lode e biasimo, sono però usati qui in modo improprio, per comodità polemica, per avere un avversario di comodo, perché è fin troppo ovvio che il filosofo non loda né biasima la realtà. Che senso avrebbe? Quando il vecchio Partito comunista perdeva le elezioni, l'Unità, il giornale di partito, scriveva che il popolo si era spostato a destra. I dirigenti comunisti biasimavano il popolo (ma solo per un attimo, perché in realtà idolatravano le masse, le folle e ogni loro mossa) per nascondere la propria insufficienza politica, i propri errori, o per non voler vedere, del popolo, la disgregazione sociale, la corruzione morale, ecc. Se la lode e il biasimo servono solo a nascondere i dati oggettivi della realtà, non è vero però che la realtà sia al di sopra di ogni giudizio e che non sia necessario, quando si abbiano delle ragioni obiettive per farlo, dirne male, dichiarando che essa è negativa. La critica a Leopardi diventa quasi derisione, quando Croce lo accomuna ai “tanti che, col ripetere in forma di solenni filosofemi le deplorazioni sulla vita che è dolore e sulla vita che è male, s'immaginano di filosofare, e anzi di filosofare sui sommi veri. Se così fosse, conclude Croce, senza temere il ridicolo di un ragionamento così puerile, la filosofia avrebbe compiuto l'opera sua da secoli, anzi da che uomo è uomo, perché quelle proposizioni affettive sono uscite sempre dal petto dell'uomo e appartengono ai comuni intercalari”. Insomma, la protesta di Leopardi contro la Natura matrigna è, quanto a verità filosofica, sullo stesso piano dei grugniti di malumore di un cavernicolo che non riusciva ad accendere il fuoco . E questa è la sentenza di Benedetto Croce. “Il breve carme 'A se stesso' può valere in esempio di questa epigrafica, che non sembra possa dirsi lirica... Certo il tono è qui come altrove così doloroso, così accorato, così desolato, così scevro di civetteria del dolore, che non può non produrre profonda impressione e ispirare una sorta di riverenza. Ma non è da disconoscere, d'altra parte, che in questi come in altri casi simili si ha, piuttosto che poesia, una notazione di sentimenti e di propositi, che non vanno oltre la cerchia dell'individuo”. Mario Fubini, in una pagina che ho letta in una antologia della critica letteraria e che proviene dalla sua introduzione ai Canti (1930), ricalca il giudizio di Croce: “Talvolta però, nella poesia 'A se stesso', per esempio, le parole cadono gravi e senza eco, le pause non si riempiono di trepida commozione, ma fanno palese quel tragico silenzio, da cui quei rotti accenti si levano […] le sue parole hanno perduto la loro lirica leggerezza”. Per Fubini, con poche eccezioni, i canti “sembrano tutti vibrare di un'intensa, ineffabile commozione […] il discorso leopardiano si allarga di parola in parola, di periodo in periodo... non per opera del raziocinio, ma per il moto del sentimento”. Senza trepida commozione e lirica leggerezza, quindi, non c'è poesia. Anche Cesare Luporini, nel suo saggio su Leopardi pubblicato nel 1947 nel libro “Filosofi vecchi e nuovi”, svalutò allo stesso modo la poesia 'A se stesso'. “Quando i versi di Leopardi cadono fuori di quell'adesione alla vita (e sia pure la vita della ginestra) essi cadono fuori della poesia, come in quella specie di biglietto lasciato sul tavolo che è il famoso 'A se stesso'”. Però Luporini, ripubblicando il suo saggio nel 1980, ha avuto l'onesta semplicità di ritrattare il suo giudizio, scrivendo nell'Avvertenza: “Revoco del tutto la valutazione che ho dato di 'A se stesso', questo straordinario monologo lirico-drammatico”. Benedetto Croce, invece, non ebbe ripensamenti. (continua al post successivo)


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