Muore una signora che occupava una casa popolare, per la quale pagava un affitto molto basso. I parenti, non so con quale trucco, evitano che questa casa rientri nella disponibilità dell’Ente proprietario e, senza averne alcun diritto, la ‘rivendono’ ad un’altra famiglia. I nuovi inquilini pagano una bustarella di ventimila euro ai parenti della signora defunta e si installano nell’appartamento, dove rimarranno vita natural durante.
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Ecco un personaggio che sembra uscito da una novella rusticana di Giovanni Verga: un omino piccolo come uno gnomo, eppure, nonostante i suoi ottant’anni suonati, pieno d’energia. Nei giorni di festa, se il tempo è buono, scende dalle colline, appoggiandosi al bastone di un ombrello, in compagnia di un vecchio pony. Arrivato sulla piazza del paese, che è grande quasi come Piazza Tien An Men, per un'offerta a piacere fa fare ai bambini, uno alla volta, un giro sulla groppa del cavallino, che lui guida camminandogli accanto.
L’omino è vestito di stracci come un contadino miserabile d’altri tempi; in testa ha un berretto da ciclista di cinquant’anni fa. E’ magro e asciugato come uno stecco secco ed è cieco da un occhio, che è aperto e mostra la sua orbita vuota.
Al bar della piazza, mi hanno detto che i soldi non gli mancano.
L’omino sembra rappresentare, fra la gente anonima del paese, l'eco di una crudele favola dei fratelli Grimm. Riesco appena a immaginare quanto possa essere grande la sua feroce avidità.
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Osvaldo da giovane faceva il contadino. Poi diventò operaio in una grande fabbrica di proprietà pubblica che dava lavoro a molte centinaia di ex-contadini.
La fabbrica era la maggiore risorsa di tutti i paesi del circondario. Con calma e metodo, in alcuni decenni, quegli operai ex-contadini spolparono letteralmente la fabbrica. Siccome Osvaldo sapeva fare di tutto, per tutta la vita si è dedicato ad ampliare e a migliorare la sua casa. I materiali e gli attrezzi provenivano in buona parte dalla fabbrica.
“Quando ho bisogno di materiale elettrico, si vantava Osvaldo, vado da un mio amico, che è magazziniere dell’Enel, e lui per centomila lire mi dà materiale per un milione”.
Bravo Osvaldo, sei un campione!
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Queste scene di lento, costante, tenace, capillare, implacabile rosicchiamento si ripetono infinite volte, ogni giorno, in tutti i settori della vita sociale. Credo che nessuna categoria e nessun ambiente facciano eccezione, tranne singoli individui del tutto privi di influenza e tenuti in isolamento.
Mentre l’indignazione contro il malcostume di politici, amministratori e dirigenti è universale, solo pochi osservatori riconoscono che in Italia la corruzione e la malafede sono di tutto il popolo, senza distinzione di ceto, di istruzione e di orientamento politico. Se non fosse così, del resto, sarebbe impossibile spiegare la catastrofe morale del nostro paese. Quella universale indignazione contro i politici e i loro associati, pur sacrosanta, non nasce, poi, da un vero sentimento morale, ma piuttosto da rabbia, invidia e paura; e proprio per questo motivo è una indignazione intermittente e superficiale, che non impegna ad un comportamento personale coerente. Fra le categorie sociali e la classe politica c’è un losco patto di ‘non aggressione’, con questa clausola segreta: noi politici vi derubiamo per coltivare i nostri privilegi e le nostre clientele, ma voi siate furbi, e chi ci riesce, arraffi quello che può. Solo questo scellerato patto di non-serietà può spiegare, da una parte, la durata quasi eterna di questi politici e, dall’altra, l’immensa evasione fiscale, la fannullaggine e l’inerzia degli impiegati e degli uffici pubblici, le migliaia di pensioni per false invalidità, l’arroganza delle corporazioni, e tutti gli altri misfatti con i quali quotidianamente i giornali disgustano le persone oneste.
Se tutto il popolo è corrotto, dove si troverà mai la forza per sostituire i politici servili e inetti con politici onesti e capaci? E dove sono questi uomini onesti e capaci? All’orizzonte non si vede nessuno. L’impresa è disperata. Qualcuno dirà che sono un catastrofista. Rispondo che l’ottimismo, se nasce da una analisi superficiale, è un sentimento insulso, e, se nasce dalla convenienza di non guardare la realtà in faccia, è un atteggiamento criminale.
Gli intellettuali laici e progressisti hanno spiegato il carattere flaccido e cialtrone degli italiani con il fatto che nella storia del nostro paese non c'è stata né una riforma religiosa né una rivoluzione borghese.
Per diversi decenni ho creduto fiduciosamente a questa spiegazione, che ora, però, non mi convince più.
Faccio dapprima una osservazione di costume.
Mi aspettavo che quegli intellettuali laici e progressisti fossero (almeno loro!) onesti e disinteressati e che avessero fatto proprii i valori etici e sociali (liberté fraternité égalité) che avevano studiato e di cui lamentavano la scarsa presa sulla coscienza degli italiani. Invece si è visto, nel corso del tempo, come quelle convinzioni si siano ammorbidite e adeguate a situazioni nuove e come anche quegli intellettuali (mi limito ai docenti universitari) siano abituati, fra l’altro, a manipolare concorsi per favorire amici e parenti, e come, pur restando aggrappati alle loro cattedre universitarie, si dedichino prevalentemente ad altre remunerative attività collaterali, che con l’insegnamento non hanno niente a che fare e che anzi ne tradiscono lo spirito.
Mi chiedo ora come mai la Spagna, che non ha avuto né riforma religiosa né rivoluzione borghese, abbia avuto la forza di resistere, con una leggendaria guerra di popolo, all’esercito di Napoleone. E anche la guerra civile del 1936-1939, sanguinosa e infelice, ha mostrato (mi sembra da ambedue le parti in lotta), accanto alla ferocia, un orgoglio nazionale, una dedizione generosa, uno spirito attivo di sacrificio, che noi italiani, come popolo, abbiamo perduto da secoli. Durante qualche breve viaggio in Catalogna, ho creduto di vedere, sia nei cittadini che nella testimonianza offerta dai bei palazzi e dalle belle strade di Barcellona, un incoraggiante senso civico.
E il popolo sovietico da dove ha tratto la sua immensa forza di resistenza nella grande guerra patriottica combattuta contro la Germania di Hitler? Non credo che siano stati decisivi né i valori della Rivoluzione d’Ottobre né il Comunismo. Stalin dovette addirittura chiedere l’aiuto della Chiesa perché sostenesse lo spirito popolare. E del resto, poco più di un secolo prima, la Russia zarista, con il suo popolo di schiavi, aveva sconfitto le armate di Napoleone.
L’ ‘epopea’ del Risorgimento non ha migliorato in niente il carattere e la tempra degli italiani, anzi li ha uniformati al livello più basso. I sogni e i progetti generosi di poeti e pensatori che prepararono e accompagnarono il Risorgimento rimasero del tutto esclusi e ignorati nella realizzazione furba, pratica e cinica che fece Cavour dell’unità nazionale. E infatti la storia d’Italia successiva all’unità è stata, fino ad oggi, una storia nazionale senza grandezza, senza coraggio e senza onore.
I giornalisti, politici e uomini di cultura (mi riferisco a quelli che passano per onesti e sono stimati dai ceti-medi-riflessivi) che oggi celebrano, con una retorica insopportabile, il 150° anniversario di quell’avvenimento mentono consapevolmente. Essi si limitano a cavalcare l’immediato presente. Il passato è passato e il futuro non c’è ancora. Essi fanno il loro mestiere con cinica professionalità, senza alcuna passione. Qualcuno ha dei lampi di lucidità, ma preferisce rimanere sulla cresta dell’onda di questo mare di m.
Alcuni mesi fa, per esempio, Corrado Augias, questo cerimonioso maestrino dalla penna rossa, nella sua rubrica su Repubblica, respinse in modo netto i dubbi di un lettore, scrivendo che Garibaldi, con la sua spedizione, “aveva formato una nazione là dove c’era solo una accolita di plebi”. Non molto tempo dopo, lessi dal barbiere, in una breve intervista data da Augias ad un periodico senza importanza, che lui aveva nostalgia dell’Italia povera di 80/100 anni fa. Solo quando si confessa ad un giornaletto di intrattenimento, Augias si permette di essere sincero. Allora può contraddire tranquillamente quello che scrive in modo solenne su Repubblica, nel suo ruolo ufficiale di intellettuale laico-patriottico-progressista.
Questi sono i nostri campioni!
Quanto all’origine dell’italica fellonìa, c’è ancora da studiare e da arrabbiarsi: “... senza sdegno omai la doglia è stolta”.
Questo verso leopardiano mi riporta ora alla interpretazione, fondata sul contrasto fra natura e ragione, che Giacomo Leopardi dette della sua epoca, che a me sembra acuta, profonda e sempre attuale.
Attingo dal libro di Cesare Luporini, ‘Leopardi progressivo’ (Edit. Riuniti 1980, ma già pubbl. nel 1947).
“La natura è grande, scriveva Leopardi nello Zibaldone, la ragione è piccola e nemica di quelle grandi azioni che la natura ispira”.
E contro i romantici, aveva scritto: Essi “non si avvedono che appunto questo grande ideale dei tempi nostri, questo conoscere così intimamente il cuor nostro, questo analizzarne, prevederne, distinguerne ad uno ad uno tutti i più minuti effetti, quest’arte insomma psicologica, distrugge l’illusione senza cui non ci sarà poesia in sempiterno, distrugge la grandezza dell’animo e delle azioni”. Essi “non si avvedono che s’è perduto il linguaggio della natura e che questo sentimentale non è altro che l’invecchiamento dell’animo nostro”. Ora, continua Luporini, questo invecchiamento è ciò che Leopardi appunto finisce per accettare come un fatto, come il destino dell’uomo moderno. Questo invecchiamento è costituito dal dominio della ragione. Il dominio della ragione diventa un elemento negativo (pp. 7-8).
Le illusioni sono un prodotto della natura, figlie dell’immaginazione. Senza le illusioni “non ci sarà quasi mai grandezza di pensieri, né forza e impeto e ardore d’animo né grandi azioni”. La ragione come nemica della natura distrugge le illusioni (p. 10).
La ragione rende impotenti, fa l’uomo inattivo. La ragione produce l’indifferenza.
Opposta all’indifferenza è la passione. Essa fa parte della natura: solo la passione, mediante l’immaginazione e le illusioni, produce grandi cose (p. 12).
“La ragione non è mai efficace come la passione. Sentite i filosofi: bisogna fare che l’uomo si muova per la ragione, come, anzi più assai, che per la passione, anzi si muova per la sola ragione e dovere. Bubbole! La natura degli uomini e delle cose può ben essere corrotta, ma non corretta [...] Non bisogna estinguer la passione con la ragione, ma convertir la ragione in passione; fare che il dovere la virtù l’eroismo ec. diventino passioni. Tali sono per natura. Tali erano presso gli antichi, e le cose andavano molto meglio” (p. 13).
A volte la passione diventa egoismo. L’egoismo è proprio dell’età moderna e del dissolvimento che Leopardi ritrova in essa. Ma quel dissolvimento è appunto opera della ragione, ed esso corrisponde alla atomizzazione individualistica che caratterizza questa età.
“L’uomo privo di passioni non si muoverebbe più per loro, ma neanche per la ragione, perché le cose son fatte così, e non si possono cambiare, ché la ragione non è forza viva né motrice, e l’uomo non farà altro che diventare indolente, inattivo, immobile, indifferente, infingardo, com’è diventato in grandissima parte” (p. 14).
“... non c’è dubbio che i progressi della ragione e lo spegnimento delle illusioni producono la barbarie, e un popolo oltremodo illuminato non diventa mica civilissimo, come sognano i filosofi del nostro tempo, la Staël ec. ma barbaro; al che noi ci incamminiamo a gran passi e quasi siamo arrivati” (p. 29) [I corsivi sono miei]
Insomma, se avesse ragione Leopardi, dovremmo concludere che, di ‘rivoluzione borghese’, in Italia ne abbiamo avuta fin troppa, e gli intellettuali laico-progressisti dovrebbero abbassare un poco la cresta e correggere le loro scolastiche teorie.


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