lunedì 25 luglio 2011

Intellettuali italiani. Umberto Galimberti parla del dolore e della morte.

   

 

 

 

 

 

 

Umberto Galimberti (filosofo e psicanalista, afferma Wikipedia) tiene da anni una rubrica su “D”, supplemento settimanale di Repubblica. Fino a non molti mesi fa, la pagina era corredata da una foto in cui il filosofo mostrava una faccia concentrata nello sforzo di pensare, mentre le mani chiuse a pugno sostenevano l’ampia fronte in piena ebollizione. Credo che nemmeno Dostoevskij, scrivendo “I fratelli Karamazov” o “Delitto e Castigo”, abbia mai avuto una espressione così spettacolarmente pensosa. Recentemente, certo per un sussulto di modestia, la foto è stata sostituita da un ritratto più sobrio e inespressivo, dove Galimberti ha l'aspetto di un malato in convalescenza. La pagina che Wikipedia dedica a Umberto Galimberti si apre con due citazioni che sono evidentemente considerate due capisaldi del suo pensiero. “Il pensiero è folle. Maledetta quella servetta che è la logica”. Non è mia intenzione, ora, riflettere su un concetto così vago, ma non posso fare a meno di osservare la puerile violenza dello stile. Con quei paroloni esagerati ed enfatici, Galimberti vorrebbe dare la pregnanza di un aforisma memorabile a un pensierino incerto e sbiadito. Poche righe più sotto, Wikipedia riporta un altro pensiero che Galimberti aveva espresso su Repubblica del 12 aprile 2008: “E se "filo-sofia" non volesse dire "amore della saggezza" ma "saggezza dell'amore", così come "teologia" vuol dire discorso su Dio e non parola di Dio, o come "metrologia" vuol dire scienza delle misure e non misura della scienza? Perché per filosofia questa inversione nella successione delle parole? Perché in Occidente la filosofia si è strutturata come una logica che formalizza il reale, sottraendosi al mondo della vita, per rinchiudersi nelle università dove, tra iniziati si trasmette da maestro a discepolo un sapere che non ha nessun impatto sull'esistenza e sul modo di condurla? Sarà per questo che da Platone, che indica come condotta filosofica "l'esercizio di morte", ad Heidegger, che tanto insiste sull'essere-per-la-morte, i filosofi si sono innamorati più del saper morire che del saper vivere?”. A parte l’approssimativa (o provocatoria e brillante, come forse preferirebbe definirla il ceto-medio-riflessivo, che costituisce il pubblico di Galimberti) scienza filologica del nostro filosofo, questo pensierino sfonda una porta già aperta da almeno un secolo e mezzo. Il pamphlet di Arthur Schopenhauer ‘Sulla filosofia delle università’ se la prendeva, con ben altri argomenti, con filosofi cattedratici che, di fronte a Galimberti, avevano perlomeno, anche agli occhi di Schopenhauer, la statura di veri studiosi. Che cosa sono queste vaghe rimasticature presentate come nuove e originali intuizioni? Pura industria e consumismo culturale. Mi ha colpito la risposta che Galimberti ha dato, nella sua rubrica su “D” del 16 luglio scorso, ad un lettore che parlava del dolore. “Il dolore, scrive Galimberti, ha più o meno un senso? No, non ce l’ha. E’ pura sofferenza”. Ma la sofferenza ha un senso?, mi verrebbe da chiedergli. No, non ce l’ha, sarebbe la risposta obbligata di Galimberti, è puro dolore. Non c’è bisogno di essere credenti e di aspirare al Paradiso per trovare meschina questa risposta. Galimberti, nella sua ansia di novità, ha abolito anche la famosa dialettica di tesi-antitesi e sintesi, nella quale il dolore potrebbe aspirare ad avere il ruolo fondamentale di antitesi. Se non c’è più l’antitesi, non c’è più nemmeno la sintesi. Di che cosa sarebbe fatta allora la vita spirituale dell'uomo? Di una immobile contemplazione del vuoto? Io, che -più che un filosofastro- sono un poetastro, paragono il dolore al fuoco. Il fuoco può distruggere e incenerire, ma può asciugare, rafforzare, piegare, sciogliere, scavare, maturare, unire, purificare. Il dolore può distruggere, ma può anche avere gli effetti “benefici” del fuoco. Anche l’accenno di Galimberti alla morte è burocratico e meschino. La specie (perché chiamarla specie e non natura, visto che sovrintende anche agli animali e alle piante?), dopo che l’uomo ha svolto il compito di riprodursi, “lo lascia decadere, perché più non gli serve, anzi trova utile e necessaria la sua morte per garantire la vita alle nuove generazioni”. Sembra la descrizione della malattia, fatta dal punto di vista dei batteri. E Galimberti conclude: “Chi non si rassegna a questo scenario crede nell’aldilà promesso dalle religioni. E se questa fede aiuta a vivere, perché opporvisi? E’ mia persuasione che qualunque cosa concorra all’esistenza, o al suo miglioramento, vada accettata. Che siano fedi, che siano illusioni, che siano maschere”. E' questo l'approdo di un pensatore così celebrato? La sua è una conclusione mediocre che mi fa ricordare un pensiero di Vauvenargues: “Quelli che si fan beffe della serietà d’animo amano poi seriamente le quisquilie”.

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