La prima volta che sentii parlare di Timpanaro fu, a metà degli anni Sessanta, da Letterio Cassata, un tenace ragazzo siciliano che traduceva Catullo e aveva una passione per la filologia e per i filologi (ho parlato di lui in un’altra parte di questo blog). Ricordo che, siccome Timpanaro allora abitava a Pisa, un pomeriggio d’estate lo accompagnammo insieme dalla Biblioteca nazionale alla stazione di S. Maria Novella. Io, per la verità, ero solo un accompagnatore in seconda. (Un’altra volta accompagnammo per le strade del centro, con la medesima distribuzione dei ruoli, il professor Antonio La Penna). Dopo il suo ritorno definitivo a Messina, Cassata mi chiese di portare a Timpanaro, alla Nuova Italia, i suoi quaderni di traduzioni. Io ero timido e avevo una soggezione dei ‘grandi uomini’ che mi paralizzava (una vera malattia), ma mi feci forza e portai quei quaderni al grande filologo. Però non ebbi mai abbastanza disinvoltura per andare a riprenderli. (Che fine avranno fatto? Speriamo che Cassata li abbia riavuti per posta). Negli anni successivi, non persi mai di vista Timpanaro. Lo incrociavo spesso alla Biblioteca nazionale, dove lavoravo, o per le strade del centro. La sua figura singolare mi attraeva. Era alto e camminava con un’andatura un po’ dondolante; portava spesso un basco, calcato sulla sommità della testa; e aveva un viso asciugato e reso ascetico da difficili esperienze della sua vita e dallo studio. Però non lo salutavo mai; anzi speravo che egli si fosse dimenticato di me e che non mi notasse nemmeno. Nel corso degli anni, lessi i suoi libri su Leopardi, sulla cultura dell’Ottocento, sul materialismo, sul lapsus freudiano, su Edmondo De Amicis, e i suoi articoli che uscivano sul Ponte e su Belfagor. Benché non fossi in grado, per carenza di preparazione, di capire bene tutte le sue argomentazioni e i suoi riferimenti, sentivo quasi con commozione il suo sforzo di spiegarsi in modo chiaro e di farsi capire, ammiravo il rispetto e la lealtà con cui si rivolgeva ai lettori e perfino ai critici e agli avversari, e la sua capacità di rendere evidenti, anche in questioni apparentemente solo erudite, gli aspetti umani, di vita concreta personale e sociale. Oggi leggo nel suo carteggio con Francesco Orlando (‘Carteggio su Freud, 1971-1977’. Pisa, Scuola normale superiore, 2001), in una lettera del 26 giugno 1972, una sua osservazione che non mi sarei mai aspettata e che suscita la mia meraviglia: “E scusami se, per effetto del ‘rimbecillimento partitico’ in cui si trova un uomo, in realtà, così tristemente apolitico come nel profondo sono io, ho finito per parlarti tanto delle beghe psiuppine [PSIUP: Partito socialista di unità proletaria] e troppo poco del tuo lavoro” (p. 31). Questa confessione mi fa pensare che il suo impegno più genuinamente ‘civile’ fosse piuttosto una passione sentimentale e culturale per la condizione umana che non l’attività modesta e assidua nei partiti in cui ha militato, che Timpanaro deve avere svolta probabilmente più per un senso alto del dovere, che non per intima convinzione o per entusiastico slancio. Quelle ormai lontane letture mi avevano lasciato, oltre ad una forte impressione di probità e di modestia, la nozione della sua rigorosa e combattiva concezione marxista e, nel suo rifiuto dello stalinismo, della sua appassionata difesa di Lenin. Con il passare degli anni, però, forse più a causa delle osservazioni dirette che andavo facendo nell’ambiente in cui lavoravo, che non per lo sfacelo del comunismo sovietico, il marxismo di Timpanaro cominciò a sembrarmi una concezione astratta e anacronistica. Timpanaro frequentava la Sala manoscritti della Biblioteca nazionale, dove lavorava mia moglie, e spesso io le dicevo, ritenendomi completamente ‘al sicuro’: “Salutami Timpanaro”. Lo dicevo in un modo superficiale ed esuberante, come si può dire ad un amico in partenza per Roma: “Salutami il papa; salutami il Colosseo”. Un giorno, però, Timpanaro bussò alla porta del mio ufficio per conoscermi (ma, in realtà, mi ri-conobbe), portandomi un pacchetto di suoi articoli in estratto, su ciascuno dei quali aveva scritto una dedica. Non riuscii quasi a spiccicare parola. Il carteggio con Cesare Cases (‘Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990’. Pisa, Edizioni della Normale, 2005) è ricchissimo di spunti storici, politici, letterari, filosofici, comici, ecc., ed ha una commovente appendice romantica che riguarda Elena Raffalovich (1842-1918), moglie di Domenico Comparetti (massimo filologo classico italiano dell’Ottocento), autrice di bellissime lettere d’amore, ritrovate e pubblicate dalla nipote, Elisa Frontali Milani, cinquant’anni dopo la morte della nonna. A voler cogliere anche solo una parte di quegli spunti, semmai ne avessi la capacità, ci vorrebbe un volume alto il triplo del libro che li contiene. Io mi limito a sottolineare, dei due carteggi, un unico punto: le professioni di fede marxista e comunista di Timpanaro, che sono contenute in osservazioni risalenti ad alcuni decenni fa, sulle quali però non ho ragione di pensare che, negli ultimi anni della sua vita, egli si sia ricreduto. Quelle professioni di fede, anche collocate sullo sfondo degli anni Settanta, mi sembrano sorprendentemente ‘ingenue’, considerando che venivano fatte da un uomo di cinquant’anni con una grande dottrina e una indiscutibile onestà intellettuale. In una lettera del 1971 indirizzata a Francesco Orlando, Timpanaro osservava che “una polemica contro lo strutturalismo [di Lévi-Strauss] condotta principalmente in nome dell’ ‘anticiarlatanismo’ è una polemica d’orizzonte limitato. Ma anche tale polemica è, a mio parere, necessaria per un marxista. Pur senza sognare facili livellamenti ‘populistici’ della cultura, senza credere affatto che l’ideale d’un marxista debba essere una cultura da Università popolare di fine Ottocento, senza disconoscere che ancora per moltissimo tempo esisteranno, fatalmente, diversi livelli e settori di cultura, tuttavia credo che un marxista debba, già ora, esigere dagli studiosi, anche in campi difficili, il massimo di chiarezza e di illuminismo, e quindi l’abbandono di tutte le civetterie intellettualoidi e di tutti i gerghi da chiesuola” (p. 10). Parole d’oro! E già nella pagina precedente, a proposito della oscurità di Gianfranco Contini, Timpanaro aveva scritto che, secondo lui, la fama di Contini era, in certa misura, usurpata. Però, pur apprezzando le intenzioni di Timpanaro, bisogna dire che l’esigenza di chiarezza di cui egli parla non è per niente peculiare del marxismo. Schopenhauer scriveva in modo chiarissimo, così De Sanctis, Croce e Francesco Flora, per esempio. Invece marxisti o ex-marxisti, seppure di terza o quarta fila, come Massimo Cacciari o Augusto Illuminati, non sono comprensibili... nemmeno con il dizionario. E’ il ‘sentimento della realtà’ che spinge ad essere chiari e ad esigere chiarezza dagli altri. E il 'sentimento della realtà' non è monopolio del marxismo (ho il dubbio, anzi, che si escludano). Ma voglio dire di più: il 'sentimento della realtà' non può venire ad un individuo dalla dottrina che professa. Esso nasce, in primo luogo, da una predisposizione biologica e naturale, che, solo a contatto con un ambiente sociale e culturale favorevole, può svilupparsi e diventare una virtù del carattere e dell'intera personalità. La dottrina più virtuosa, da sé sola, non farà mai diventare virtuoso chi la professa (Ricordare Molière: 'Uno sciocco istruito è più sciocco di uno sciocco ignorante'). In quelle poche righe di Timpanaro c’è ancora l’illusione che il marxismo possa cambiare e migliorare l’uomo. Invece abbiamo visto che non è vero. In un’altra lettera del 1971, diretta a Francesco Orlando, Timpanaro scrive: “Freud è, in fondo, un apologista (anche se un apologista drammaticamente pessimistico) della repressione: senza repressione, niente civiltà. Tu, pur essendo giustamente convinto che anche dopo la rivoluzione ‘molto rimarrà sacrificato nel nuovo ordine di cose’ (e ci sarà quindi bisogno anche allora della poesia come espressione di ciò che non si potrà dire apertamente e ‘affermativamente’), consideri fondamentalmente la repressione come il limite di una civiltà” (p. 21). Non posso non rimanere stupito che questi due dotti signori parlino di ‘rivoluzione’ con una aspettazione così ingenuamente messianica. La cosa che mi stupisce ancora di più è questa: benché Timpanaro sia convinto che il marxismo abbia bisogno di essere arricchito da una considerazione più materialistica e più scientifica della biologicità dell’uomo (p. 21), egli mostra di credere fermamente che con il comunismo l’uomo e il mondo diventeranno senz’altro migliori. ..... Nella foto (anni Quaranta), Timpanaro, insegnante in una scuola di avviamento professionale, è il primo da destra. (Continua al post successivo)


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