mercoledì 29 giugno 2011

Intellettuali italiani. - Eugenio Garin: Intervista sull'intellettuale. Laterza, 1997. - Una montagna di erudizione ha partorito noiosi pensierini.

 

 

 

 

 

 

 

E un popolo di filosofi sarebbe il più piccolo e codardo del mondo (Giacomo Leopardi) 

Dopo aver riletto (per il post precedente) alcune pagine di Luigi Russo, sempre vivaci, ricche di belle immagini e di idee chiare e nette, ho la sensazione ora, con questo libretto di Eugenio Garin (1909-2004), di affogare nella prosa prediletta dai funzionari del vecchio Partito comunista: un Emanuele Macaluso, per esempio, o un Giorgio Napolitano. Nella forma, questo volumetto di Garin è piatto come un manuale scolastico, mentre nel contenuto ha quella genericità con la quale si può dire tutto e il contrario di tutto e si può oscurare ogni evidenza annegandola in un contesto così ampio da rovesciarne il significato. Faccio l'esempio che mi sembra più grave. A pag. 94 l'intervistatore fa una domanda cruciale: “Ma lei non crede che questi intellettuali, almeno i più, abbiano insistito troppo poco nella critica a ciò che succedeva nel mondo comunista? Non c'è stata reticenza? Non s'è vista ipocrisia?”. Riporto solo qualche brano della risposta, che è molto lunga, come quasi tutte le risposte di Garin, che sono più che altro monologhi, spesso divaganti. “Io non credo, ma so, perché l'ho constatato, che fra gli 'intellettuali' italiani che si agitarono a sinistra, non mancarono i soliti retori d'occasione che, con poche idee e poco chiare, dopo aver flirtato magari col fascismo, e poi col comunismo, sono stati pronti ai nuovi giri di valzer, nei pressi del caduto Muro di Berlino, in difesa delle libertà distrutte dal feroce stalinismo”. Qui è chiaro che 'feroce' è detto senza convinzione, per ironizzare su questi intellettuali non identificati, la cui esistenza non ha avuto, in ogni caso, nessuna rilevanza sul problema vero: perché gli intellettuali comunisti hanno sempre difeso o giustificato lo stalinismo? (Ricordo, per esempio, che quando nel 1978 morì l'assassino di Trockij, Ramón Mercader, Giancarlo Pajetta sull'Espresso ebbe parole di compianto per l'assassino, dicendo che aveva duramente pagato, e non per la vittima). Questo primo brano della risposta di Garin è dunque un puro diversivo. Il secondo brano conterrebbe, per la verità, una piccola giustificazione (tipo: per combattere il fascismo, fu inevitabile appoggiarsi e credere nel comunismo sovietico). Ma esso parte da così lontano ed è talmente lungo e pieno di tortuosi giri di parole, tutte pesate e calibrate per cercare di prevenire ogni obiezione, che è anch'esso un diversivo, cioè una risposta senza contenuto. Il terzo brano, eccolo: “Né si dovrebbe dimenticare, come troppo spesso si fa, che anche uomini di cultura insigni, che dello stalinismo si rivelarono poi critici acerbi, erano stati in partenza, se non ammiratori, almeno curiosi del mondo comunista” (pag. 95). E con questo? A me sembra del tutto comprensibile che, all'inizio, la Rivoluzione russa suscitasse curiosità e perfino entusiasmo anche negli intellettuali non comunisti. Le loro successive posizioni contrarie allo stalinismo non possono far loro altro che onore. Non capisco quale senso e utilità abbia questa osservazione di Garin. E poi: perché dire ‘si rivelarono’ invece che, più naturalmente, ‘diventarono’? Il verbo ‘si rivelarono’ suggerisce non l’idea di uno spontaneo sviluppo intellettuale e politico verso posizioni critiche, ma piuttosto l'immagine di 'insigni uomini di cultura' dal carattere vacillante e ambiguo. Sarà un lapsus? Ancora un brano della stessa risposta: “Come non si dovrebbe neppure dimenticare, quando si parla di ‘reticenza’ e di ‘ipocrisia’ nelle critiche, il significato che ebbe la Rivoluzione d’ottobre e che cosa pur realizzò sul piano artistico, scientifico e culturale in genere, per non dire del terribile sacrificio di sangue del popolo russo per la disfatta di Hitler” (pag.95). Garin continua poi a divagare ancora per una pagina e mezza, citando La Pira, Aldo Capitini, padre Balducci, Adolfo Omodeo, Gaetano Salvemini, ecc., senza aggiungere niente al poco che ha già detto. Da quest’ultimo brano che ho riportato (formulato anch’esso nello stile degli interventi che si facevano, in tempi beati, alle riunioni del comitato centrale), sembra che Garin sia rimasto fermo al libro “Nell’Unione Sovietica si vive così” di Paolo Robotti (1950). Ma già nel 1950, anzi già prima dell’ultima guerra, esistevano, anche in italiano, importanti libri di memorie, di analisi e di denuncia dello stalinismo. Garin forse non li ha voluti leggere. Vantare nel 1997 (pochissimi anni fa) i successi artistici e culturali del comunismo (quelli scientifici immagino siano indiscutibili, ma anche l'India li ha raggiunti, senza il comunismo) ricorda quegli ignari soldati giapponesi, perduti nella giungla, che continuavano a combattere ancora vent'anni dopo la fine della guerra. Inoltre, anche un ignorante come me sa che il ‘terribile sacrificio di sangue del popolo russo’ nell’ultima guerra non è stata una eroica epopea il cui merito possa essere attribuito a Stalin. E’ vero, piuttosto, il contrario: se Stalin fosse stato un vero statista e avesse commesso meno errori, quel sacrificio forse non ci sarebbe stato, oppure sarebbe stato meno terribile. Tutti gli argomenti sono trattati da Garin in modo così generico da risultare confusi; ciascuno di essi, perciò, suscita obiezioni e esigerebbe delle sottili precisazioni. Per es., a pag. 60 scrive: “Non credo affatto che si sia arrivati alla conclusione di un periodo storico con la disfatta di tutti i nostri ideali, e dei nostri sogni, di ‘giustizia e libertà’ [...] Credo nelle possibilità dell’uomo, nella forza della ragione e nella possibilità di fondo di un mondo migliore”. (Non posso sfuggire all'impressione che Garin stia qui inconsapevolmente parafrasando o almeno seguendo il ritmo del Credo: 'Credo nello Spirito santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi'). A pag. 127, invece, scrive: “Oggi, però, guardandoci intorno nel mondo, vien fatto piuttosto di cercare seriamente le ragioni del fallimento di tutti i sogni di un mondo migliore”. Non penso che l’età veneranda abbia reso più incerte le sue risposte. Garin è sempre mentalmente lucido e ha una memoria di ferro. Cita decine di autori, di libri, editori, traduttori, anni e luoghi di stampa. Ha nella testa una immensa e ordinatissima biblioteca. Il suo difetto, io credo, è di essere un erudito scialbo, un uomo solo libresco. Gli piace, per es., 'Il nome della rosa' di Umberto Eco, e ne dà un giudizio che a me sembra una aberrazione non solo del gusto, ma del più elementare senso politico: "Con 'Il nome della rosa' [Eco] ha tentato anche un'operazione rilevante. Quella di poter fare da contraltare nobile a Pippo Baudo o comunque ai modelli diffusi dalla televisione. Era una strada. Imboccandola, Eco si è impegnato civilmente. E' uscito dalla biblioteca e ha agito nella società" (pag. 119). Garin si vanta continuamente di essere stato un insegnante, ma io non trovo alcuna forza educativa né nel suo stile né nelle sue idee. Trovo invece che il suo aspetto di funzionario rispecchia bene la sua personalità.

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