Nel carteggio con Cesare Cases, in una lettera del 1958, Timpanaro scrive: “... a me sembra che, se davvero la tecnica potesse costruire ex novo un cosmo più razionale e più giusto di quello ‘naturale’, ciò sarebbe un gran bene; il male è che non ci riesce; tu sembri invece considerare come un bene questa impossibilità di uscire completamente dal regno della necessità naturale” (p. 33). Io sto, naturalmente, con Cases, che nelle sue lettere si rivela, mi pare, più scettico, più spiritoso, più realista (meno ‘ingenuo’) di Timpanaro. (Mi sembra interessante che in una lettera del 1974 a Orlando, Timpanaro riconosca: “Io in realtà non ho doti di teorico, ma solo di panflettista”, p. 42).
In una lettera del 1970 a Cesare Cases, si leggono dei concetti per me strabilianti:
“Quando Antonio Labriola vagheggiava una futura umanità di ‘uomini quasi trasumanati’, nella quale l’eroica imperturbabilità di Spinoza di fronte alla morte sarebbe diventata una virtù non più eccezionale ma comune a tutti gli uomini, e attribuiva la paura della morte a residui di irrazionalismo e di mitologia, che cosa faceva, in sostanza, se non propugnare uno ‘stoicismo di massa’? Tale atteggiamento è certo contrario allo spirito più profondo del marxismo, per il quale le ingiustizie sociali non devono essere ‘superate idealmente’ mediante il rifugio nella libertà interiore, ma devono essere eliminate di fatto” (pp. 167-168).
Io sono d’accordo con questa interpretazione di Timpanaro, purché il principio di rifiutare lo stoicismo non venga inteso in un modo troppo rigido e assoluto. Se ciò che conta è solo l’attività esterna per eliminare le ingiustizie sociali, si corre il rischio di non dare più nessuna importanza alla vita interiore e alla spiritualità dell’individuo. Facilmente si scivolerebbe in una situazione simile a quella esistente ai tempi di Stalin, quando anche la libertà interiore veniva negata e repressa, e le persone, fuori di casa, dovevano essere sempre sorridenti o almeno avere un’espressione soddisfatta, per non suscitare il sospetto di essere degli oppositori.
Ma Timpanaro continua rincarando la dose:
“Senonché né Marx né Engels, né i marxisti hanno mai tratto, che io sappia, la conclusione che anche per i mali naturali deve valere lo stesso rifiuto dello stoicismo: anche per essi [è l’opinione di Timpanaro] ci vuole non la consolatio philosophiae, ma - se è possibile - l’eliminazione di fatto. Questa conclusione, invece, l’ha tratta il Leopardi. La lotta contro la natura alla quale egli esorta gli uomini nella ‘Ginestra’ è precisamente una lotta reale (non un’evasione filosofica o religiosa) contro i mali naturali [...] Il punto essenziale non è la previsione più o meno rosea di questa lotta: è il rifiuto dello stoicismo, ed è il riconoscimento che anche in una società in cui siano state eliminate le ingiustizie e le disuguaglianze sociali continuerà ad esserci infelicità finché non siano stati eliminati i mali fisici” (p. 168).
Ma a che cosa aspira Timpanaro, mi chiedo: al paradiso in terra? Lui non crede che la lotta per eliminare i mali fisici possa avere pieno successo (è l’apice del suo realismo), però sul piano della teoria pensa che l’obiettivo di vincere completamente la natura sia del tutto legittimo, se gli uomini vogliono realizzare il loro diritto alla felicità. Ma è un obiettivo umano, questo? La vita avrebbe ancora senso e consistenza? Io non ho mai visto, in un uomo così modesto e puro, tanto orgoglio filosofico. Non riesco a credere che questo orgoglio abbia radici nella sua persona fisica e nella sua storia personale; esso sembra piuttosto la conseguenza logica di un ragionamento fondato su astrazioni e pertanto irrealistico.
Ho riletto la Ginestra e non ho trovato che la lotta contro la natura a cui esorta Leopardi sia una lotta per eliminare i mali fisici. Nella poesia trovo l’invettiva, l’avversione, il rancore e la resistenza contro la natura, ma non l’esortazione a una lotta che abbia uno scopo, un programma. Semmai, trovo, al contrario, la derisione di coloro che coltivano speranze troppo alte (versi 98-110).
E dal v. 111 al v. 125, Leopardi esalta lo stoicismo di chi “a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato, e che con franca lingua, / nulla al ver detraendo, / confessa il mal che ci fu dato in sorte, / e il basso stato e frale;" ecc.
“Senza alcun dubbio il comunismo, continua Timpanaro, darà un potente impulso al raggiungimento di questo obiettivo [lotta contro la natura], sia perché eliminerà i modi di vita ‘innaturali’ (dalla guerra allo sfruttamento in fabbrica all’inquinamento dell’aria) che oggi ci affliggono e ci abbreviano la vita, sia perché potrà indirizzare verso quella mèta tutto il potenziale tecnologico e scientifico che oggi viene dissipato in altre direzioni” (p. 168-169).
Per me sarebbe più facile credere all’esistenza di un dio onnipotente che voglia il bene di ogni singola creatura, piuttosto che condividere la fiducia di Timpanaro nel comunismo (e, fondamentalmente, nella perfettibilità dell’uomo).
La cosa buffa è che, siccome Cesare Cases non mostra di credere veramente che l'uomo possa dominare la natura, Timpanaro lo rimprovera amichevolmente di vedere le cose in modo un po’ irreale (p. 169).


Nessun commento:
Posta un commento