martedì 3 maggio 2011

Orlando Figes: La danza di Nataša. Storia della cultura russa (XVIII-XX secolo). Einaudi 2004. Parte 6^.

Fin quasi alla metà dell’Ottocento, i russi colti non si sentivano spiritualmente cittadini del loro paese, ma abitanti della Francia. Avevano difficoltà a parlare e scrivere la propria lingua. Conversavano nella lingua materna come se fossero francesi che vivessero solo da poco in Russia. Era un comune paradosso che i russi più colti e raffinati sapessero parlare solo il russo popolare, che avevano imparato da bambini a contatto con la servitù. In certe famiglie era proibito ai bambini parlare russo se non di domenica e nelle feste religiose (pp. 49-50). Anche la religione ortodossa era lontana dalla coscienza delle élite occidentalizzate, impregnate della cultura laica dell’Illuminismo francese. Giudicare paternalisticamente l’ortodossia come ‘fede contadina’ era un luogo comune del mondo aristocratico (p. 51). Ma già cominciavano a venire alla luce le opere di scrittori ostili all’egemonia europea, che intendevano definire il carattere russo distinguendolo dai valori dell’Occidente. Questi scrittori istituirono l’antitesi tra artificio straniero e verità nativa, tra ragione europea e cuore o anima russi, schema che sarebbe stato alla base della narrativa ottocentesca (p. 52). Cominciava il culto della vita contadina con il suo ideale di purezza morale. Lo scrittore Aleksandr Radiščev fu il primo a sostenere che le virtù più elevate si trovavano nella cultura della gente più umile (p. 53). Già la Rivoluzione francese aveva profondamente scosso l’idealizzazione russa della cultura europea. In pochissimi decenni, l’idea che l’Occidente fosse moralmente corrotto fu ripresa da tutti gli scrittori, a partire da Puškin fino agli slavofili (p. 58). Ma il grande spartiacque nella vita spirituale (e politica) delle classi colte fu l’invasione della Russia da parte di Napoleone. Nel 1812 molti ufficiali persero il loro orgoglio di classe e scoprirono il valore e il patriottismo dei soldati contadini. Questi nobili liberali avrebbero preso le difese della ‘nazione’ e della ‘causa del popolo’ nella sollevazione decabrista del 14 dicembre 1825. A forgiarne l’atteggiamento democratico era stata l’alleanza con i soldati contadini sui campi di battaglia del 1812 (p. 61). “La Russia era stata onorata dai suoi soldati contadini, - scrisse il principe Sergej Volkonskij. - Saranno soltanto servi, ma questi uomini hanno combattuto come cittadini per la loro madrepatria” (p. 63). Sull’onda del 1812, affiorò una diversa rappresentazione del mondo contadino, che ne sottolineava la forza eroica e la dignità umana. La lingua comune entrò sempre più nella letteratura, via via che scrittori come Gogol cominciarono a incorporare il parlato nella lingua scritta (pp. 99 e 102). Molti scrittori asserivano che le loro convinzioni populiste si erano formate grazie alla loro infanzia vissuta a contatto con la servitù (p. 107). Gli scrittori si immersero nella vita delle campagne. Come si espresse Saltykov-Ščedrin, il contadino era diventato ‘l’eroe del nostro tempo’. L’immagine letteraria del contadino russo nel primo Ottocento faceva leva sul patetismo. Tutto cambiò nel 1852, con la pubblicazione del capolavoro di Ivan Turgenev, Memorie d’un cacciatore. Qui, per la prima volta nella letteratura russa, i lettori si trovarono di fronte all’immagine del contadino come essere umano razionale invece che alla vittima sofferente dipinta nella precedente letteratura sentimentale. Il contadino di Turgenev era una persona abile sul piano pratico, ma capace anche di avere sogni elevati. Il libro ebbe un ruolo fondamentale nel modificare l’atteggiamento nei confronti dei servi. Turgenev raccontò che, poco dopo la loro emancipazione (1861), due contadini gli si erano avvicinati sul treno tra Orël e Mosca e si erano prostrati dinanzi a lui fino a terra, alla maniera russa, per ringraziarlo a nome di tutto il popolo (pp. 193 e 194). (continua al post successivo)

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