
Nell’estate del 1874 migliaia di studenti lasciarono le aule universitarie di Mosca e di San Pietroburgo e viaggiarono verso le campagne per iniziare una nuova vita insieme ai contadini, fiduciosi di trovare una nuova nazione nella fraternità umana. I giovani missionari erano oppressi dal senso di colpa per i loro privilegi. Andare verso il popolo era come andare in pellegrinaggio in un monastero alla ricerca della verità (p. 191).
Turgenev ammirava la passione idealistica di questi giovani rivoluzionari, però scrisse realisticamente che “la loro strada è tanto sbagliata e impraticabile che non può non condurli al più completo fallimento”. Che è esattamente quel che avvenne. La maggior parte degli studenti cozzò nel guardingo sospetto o nell’ostilità dei contadini, i quali ascoltavano umilmente le loro prediche senza in realtà capirci nulla. La gente di campagna diffidava della cultura degli studenti e delle loro maniere cittadine, e in molti luoghi li denunciò alla polizia (p. 197).
Il mito del buon contadino comincia a sgonfiarsi. Presto gli daranno il colpo di grazia Čechov, Gorkij e Ivan Bunin. Ma già cinquant’anni prima, proprio mentre si diffondeva fra le classi colte l’idea dell’anima del contadino, del suo altruismo e della sua abnegazione, c’era già chi aveva sul popolo poche illusioni. Il critico Vissarion Belinskij scrisse una lettera aperta il 15 luglio 1847 a Gogol, nella quale osservava che il contadino “mentre pronuncia il nome di Dio, si gratta la schiena. E dell’icona dice: ‘Va bene per pregare, ma anche per coprirci le pignatte”. Belinskij concludeva la sua lettera affermando che il popolo russo, in fondo, “è profondamente ateo per natura. E’ molto superstizioso, ma senza traccia di religiosità” (p. 274). Anche la Chiesa aveva molti dubbi sull’indole cristiana dell’anima contadina.
Nel 1897, un racconto di Čechov, Contadini, suscitò un appassionato dibattito nella società russa. I protagonisti del racconto apparivano solo esseri umani abbrutiti e involgariti dalla povertà, non i portatori di una particolare lezione morale. Čechov fu denunciato dai populisti per non essere stato capace di esprimere gli ideali spirituali della vita contadina. Tolstoj definì il racconto ‘un peccato contro il popolo’. Ma la novella di Čechov era frutto della conoscenza di prima mano che l’autore aveva del mondo rurale. I marxisti invece lodarono la storia, perché vedevano nella disgregazione del mondo contadino la possibilità di conquistare un consenso di massa (pp. 222 e 223).
La vecchia Russia rurale stava per essere messa da parte dall’avanzata delle città. La causa di fondo di questa trasformazione era il lento declino dell’agricoltura contadina nella sovrappopolata zona centrale del paese. Ci fu un abbandono in massa delle campagne. I contadini inurbati si adattavano a lavori non qualificati di fabbrica, o a mansioni da domestico o da servitore. Qualsiasi lavoro urbano sembrava desiderabile in confronto agli stenti e all’ottusa routine della vita rurale. La tradizionale famiglia contadina cominciò a scompaginarsi man mano che gli individui più giovani e alfabetizzati si scrollavano di dosso la tirannia patriarcale del villaggio. In questa rivoluzione culturale riposano le fondamenta su cui avrebbe operato il bolscevismo. La base del partito verrà, infatti, reclutata principalmente tra giovani contadini di questo tipo, la cui ideologia sarà il disprezzo scientista per quel mondo rurale che la rivoluzione avrebbe inesorabilmente spazzato via. Il bolscevismo si edificò sulla cultura consumistica di massa delle città. Anche i lettori rurali creati dalla crescita della scolarizzazione primaria preferivano ormai i generi bassi della letteratura economica urbana, come il poliziesco, l’avventuroso o il sentimentale (pp. 224-226).
Il contadino era stato ‘ceduto’ alla crassa cultura commerciale delle città. Il contadino, il supposto portatore dell’anima russa – un cristiano naturale, un socialista altruistico, un faro morale per il mondo -, era diventato vittima della banalità. Improvvisamente i vecchi ideali vennero calpestati e, come aveva predetto Dostoevskij, una volta che i campioni del popolo ebbero realizzato che esso non era come loro avevano immaginato, rinunciarono ad ogni ideale senza alcun rimpianto. Se prima il contadino era la luce, ormai, per tutti gli anni che porteranno fino al 1917, sarà un’ombra sempre più scura che calerà sulla Russia. Le classi colte furono gettate nel panico morale da quella che consideravano la discesa del mondo contadino nella barbarie. La rivoluzione del 1905 confermò tutti i loro timori. La scatenata insubordinazione delle classi inferiori, i combattimenti nelle strade, gli incendi nelle campagne, la diffidenza e l’odio sui volti dei contadini mandarono in frantumi il romanzo del ‘popolo’ e della sua causa (p. 227).
Nel 1909 un gruppo di filosofi, che criticavano l’intellighenzia radicale e il suo ruolo nella rivoluzione del 1905, pubblicò una raccolta di saggi, ‘Pietre miliari’. Questi saggi contenevano un duro attacco al culto ottocentesco del popolo. C’era il diffuso sentimento che le masse avrebbero distrutto la fragile civiltà europea della Russia e che, una volta venuta la rivoluzione, il paese sarebbe stato trascinato in basso, al livello del semiselvaggio mondo contadino.
Questo fosco stato d’animo è ben colto in quello che è probabilmente il ritratto più desolato della vita rurale di tutte le letterature: il lungo racconto ‘Il villaggio’ di Ivan Bunin (1910). Bunin aveva esperienza del mondo contadino. Diversamente da Turgenev e da Tolstoj, che erano rampolli della più alta aristocrazia, Bunin apparteneva alla piccola nobiltà di provincia, che era sempre vissuta a stretto contatto con i contadini. Gli abitanti del villaggio descritto da Bunin sono tetri e ignoranti, ladri e disonesti, pigri e corrotti. (Nell’esilio parigino, Bunin scriverà invece racconti che descriveranno la Russia come un paese di sogno, e sarà venerato come la testimonianza vivente che la tradizione realistica di Turgenev e Tolstoj contnuava nella diaspora, pp. 461-462).
Anche Maksim Gorkij sapeva che la vita contadina era quella descritta da Bunin. Il suo disincanto era basato sull’esperienza. Egli stesso veniva dai ‘bassifondi’. In ‘Infanzia’ (1913) descrive un microcosmo della Russia provinciale: un luogo di miseria, di crudeltà e grettezza, dove gli uomini si attaccavano alla bottiglia senza ritegno e le donne trovavano conforto in Dio. Nel 1922 Gorkij scriveva: “Dov’è dunque quel contadino russo gentile e contemplativo, l’instancabile ricercatore della verità e della giustizia, presentato al mondo in modo tanto convincente e bello dalla letteratura ottocentesca? In gioventù ho sinceramente cercato un simile uomo nelle campagne russe, ma non l’ho mai trovato” (pp. 228-230). (continua al post successivo)
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