domenica 1 maggio 2011

Orlando Figes: La danza di Nataša. Storia della cultura russa (XVIII-XX secolo). Einaudi 2004. Parte 3^.

A distanza di tanti anni e col senno di poi, le brillanti pagine di critica letteraria di Lev Trockij hanno perduto tutto il loro smalto e fanno quasi pena. Ecco, per esempio, che cosa scriveva di Zinaida Gippius: “... voi vedete chiaramente la natura della poetessa: ancora ieri era una gran dama pietroburghese così languida, così ornata d’ingegno, così liberale, così moderna, ed ecco che d’un tratto questa gran dama, compresa della propria raffinatezza, scopre la nera, scandalosa ingratitudine della plebe ‘dagli stivali chiodati’ e offesa nei suoi sentimenti più sacri trasforma la sua furia impotente in un frenetico strillo femminesco [...] chi sa, tra un centinaio d’anni lo storico della rivoluzione russa additerà lo stivale chiodato che ha pestato il mignolo lirico della gran dama pietroburghese, la quale immediatamente diede a vedere quale innata strega borghese si celasse sotto l’involucro mistico-decadente-erotico-cristianissimo” (Trockij, Letteratura e rivoluzione, Einaudi 1974, pp.24-25). Trockij prefigurava la fucilazione e la deportazione dei migliori artisti e scrittori russi, definendole semplicemente come ‘ uno stivale chiodato che ha pestato il mignolo lirico’ di poeti mistico-erotico-decadenti. Del resto, Lenin, alludendo agli intellettuali politicamente non collaborativi, scriveva nel 1920: “Il vecchio Oblomov è con noi... e ci vorrà una buona bastonatura per ottenere qualcosa da lui” (p. 352). “All’inizio degli anni Trenta, scrive Figes a p. 402, ogni scrittore dotato di una voce individuale era reputato politicamente sospetto”. Dopo pochi anni di libertà artistica, il regime partì presto all’attacco delle avanguardie e del formalismo. Ma per muovere questo assalto, il potere sovietico doveva fare una controrivoluzione nella politica culturale. Infatti fu abbandonato completamente l’impegno rivoluzionario a sviluppare una cultura proletaria che potesse diversificarsi dalla cultura del passato. All’opposto, il regime favorì il ritorno alle tradizioni nazionalistiche dell’Ottocento, che reinventò, distorcendole, come realismo socialista. (p. 410). Ma nella versione staliniana, il realismo socialista significava che l’artista doveva dipingere la vita sovietica non come era in realtà, ma come avrebbe dovuto diventare. (p. 405). “Agli occhi del sofisticato lettore occidentale tutto ciò può sembrare un’orribile perversione del ruolo della letteratura. Ma non appariva così nella Russia staliniana, dove la schiacciante maggioranza dei lettori era nuova alle convenzioni della finzione letteraria, e c’era scarsa consapevolezza della differenza tra mondo reale e mondo dei libri. La gente aveva con la letteratura, probabilmente, un approccio simile a quello di un tempo verso le icone e le storie dei santi, pensando che essa esponesse verità morali capaci di guidare la loro vita” (p. 406). Ma questa ingenua credulità popolare non giustifica il conformismo orwelliano che viene imposto in ogni campo delle arti e delle scienze. Tanto più che il regime staliniano è capace di virate opportunistiche sconcertanti. Dopo l’invasione tedesca del giugno 1941, non si parlava più di comunismo, che fu vistosamente assente dalla propaganda bellica sovietica. Si parlava solo di ‘guerra santa’ e di ‘guerra patriottica’. “Per mobilitare il sostegno, il regime staliniano ricorse perfino alla Chiesa russa, il cui messaggio patriottico poteva persuadere più facilmente una popolazione rurale che non si era ancora ripresa dagli effetti disastrosi della collettivizzazione” (p. 418). Durante il lunghissimo assedio di Leningrado, Anna Achmatova, che era diventata ‘la voce della gente’, fu invitata a sollevare il morale della città parlando alla popolazione per radio. “Per anni la sua poesia era stata vietata dalle autorità sovietiche. Eppure il nome stesso di Achmatova si identificava a tal punto con lo spirito della città che persino Ždanov fu pronto a inchinarsi di fronte ad esso”. Ma passato il pericolo tedesco, nel 1946, l’intrepido Ždanov, inflessibile custode dell’ideologia staliniana, annunciò l’espulsione di Achmatova dall’Unione degli scrittori con una astiosa requisitoria, nella quale la poetessa viene descritta come un ‘residuato della vecchia cultura aristocratica... ora monaca, ora sgualdrina, o, piuttosto, insieme monaca e sgualdrina in cui la dissolutezza si mescola alla preghiera’. (pp. 419 e 430). E’ ancora lo stesso repertorio di insulti (però molto meno eleganti) che aveva usato Trockij più di vent’anni prima verso Zinaida Gippius. (continua al post successivo)

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