mercoledì 23 marzo 2011

Fëdor Dostoevskij: 'Memorie da una casa di morti'. - Umanità di Dostoevskij.

Vladimir Nabokov, l’autore di ‘Lolita’, nelle sue ‘Lezioni di letteratura russa’ aveva molto ridimensionato il valore artistico di Dostoevskij. Aveva compilato una graduatoria che ricostruisco ora a memoria: 1. Tolstoi; 2. Cechov; 3. Gogol; 4. Turgenev. Mi pare, insomma, che Dostoevskij venisse collocato fra i minori. Confesso che questo pregiudizio riduttivo mi ha accompagnato per parecchi anni e mi ha scoraggiato dal rileggere con attenzione i suoi romanzi, anche perché (debbo ammetterlo) me li ricordavo tetri e soffocanti. Ho voluto ora rileggere le ‘Memorie da una casa di morti’, che a distanza di molti anni dalla prima lettura ricordavo solo confusamente, spinto dalla curiosità di capire meglio quali fossero le condizioni dei lavoratori forzati all’epoca degli zar. In italiano, quest’opera ha titoli molto mutevoli. La copia in mio possesso fu pubblicata nel 1932 dalle Edizioni A. Barion di Sesto San Giovanni con il titolo: “I sepolti vivi (Scene dalla ‘Casa morta’)”. Non direi che sia un libro di denuncia contro il regime dello zar o contro le condizioni della deportazione nella steppa siberiana. Certo, se ne possono ricavare molte notizie e informazioni pratiche su quel regime carcerario. Qualcuna l’ho anticipata in un post recente. Ma non mi pare che sia questo il significato del libro, il cui valore trascende la contingenza del carcere. Dostoevskij non fa che osservare i suoi compagni di galera. Cerca di capirli con attenzione e affetto, non da spettatore distaccato, ma sentendosi uno di loro. Naturalmente, con alti e bassi, con momenti di grande intimità morale e altri di istintivo rifiuto di tutti. “Come avrei potuto immaginare - scrive - quale spaventosa tortura sarebbe stato il non potermi mai trovar solo, neppure per un momento, nel corso dei dieci anni d’ergastolo a cui ero condannato? Al lavoro, sempre sotto gli occhi della scorta, in casa sempre in compagnia di centinaia d’altri reclusi, e mai solo, mai!”. E la sua sofferenza è aumentata dal fatto che, pur costretto ad essere sempre circondato dai compagni di prigione in una coabitazione forzata, in mezzo a loro è quasi completamente isolato, a causa della sua origine nobile, che crea una distanza incolmabile fra lui e gli altri. Ma Dostoevskij pensa solo fuggevolmente a se stesso e alle proprie sofferenze. Con una attenzione assolutamente spontanea, che è quasi un atteggiamento religioso, egli scruta i suoi compagni, ricostruendo con scrupolo di verità la vita che avevano condotto prima della deportazione. Pur consapevole dei delitti spesso terribili che li avevano portati in Siberia, Dostoevskij non può fare a meno di provare per loro un sentimento di ammirazione e di rispetto. Essi sono il popolo russo. Dostoevskij impara a conoscerne tutte le debolezze: la vanità, l’invidia, la violenza, la tendenza a rubare anche agli amici, la vigliaccheria, e tuttavia li salva. “In generale, i forzati parlavano poco del loro passato; rifuggivano dal raccontarlo, ed evidentemente cercavano di non ricordarsene neppure”. “...tutta quella gente aveva una certa istruzione, e non solo in senso figurato, ma nel vero senso della parola. La gran maggioranza di essi sapeva leggere e scrivere. In quale altro luogo di Russia si potrebbe trovare una simile massa di popolo di cui la metà sappia leggere e scrivere?”. “Quel sapersi non meravigliare mai di nulla era considerato come la più grande virtù, là dentro. Tutti avevano un debole accentuato per il portamento esteriore”. “... il tono di tutti consisteva, esteriormente, in una specie di dignità tutta propria, di cui era penetrato quasi ogni ospite della casa di pena. C’era da pensare che il titolo di forzato fosse un grado onorifico. Non una traccia di vergogna o di pentimento in alcuno. Si notava, comunque, nei detenuti, una specie di docilità apparente, un certo calmo, rassegnato modo di ragionare: ‘Siamo gente perduta’, dicevano”. Chi ha letto i ricordi dei sopravvissuti ai Gulag staliniani può, anche solo dal piccolo brano che riporto qui sotto, valutare quanto le prigioni dello zar fossero, a metà Ottocento, infinitamente meno crudeli. “La prima impressione che ebbi entrando nel carcere fu, nel suo insieme, di assoluta ripugnanza; pure, e ciò era molto strano, subito mi sembrò che là dentro la vita fosse molto meno penosa di quanto me la fossi immaginata durante il viaggio. I detenuti, sebbene incatenati, giravano liberamente per tutto l’ergastolo, litigavano tra loro, cantavano, s’occupavano dei loro lavori personali, fumavan la pipa, bevevano acquavite, e di notte intavolavan persino partite a carte. Il lavoro stesso, per esempio, non mi parve affatto gravoso e penoso quanto credevo, e soltanto molto tempo dopo compresi che la gravosità e la durezza di quel lavoro non consistevan tanto nella sua difficoltà e continuità, quanto nel fatto ch’era ‘forzato’, obbligatorio, compiuto sotto la minaccia del bastone”. Sì, quanta differenza dalla Russia sovietica. Il popolo era ancora pietoso. “Tutti i forzati di Russia sanno che le persone che più mostran loro compassione sono i medici. I medici non fanno mai distinzione fra i detenuti e gli altri, come involontariamente fanno quasi tutti, tranne, forse, la gente del popolo. Un popolano non rimprovera mai al detenuto il suo delitto, per quanto terribile esso sia, e gli perdona tutto in considerazione della pena che subisce e, in generale, della sua disgrazia”. Chi ha letto i ricordi di Nadežda Mandel’stam (1899-1980), ‘L’epoca e i lupi’, può valutare in quali abissi di aridità, di crudeltà e soprattutto di paura sia precipitato il pietoso popolo russo sotto il regime sovietico. Per vincere la guerra patriottica contro Hitler, esso dovette ritrovare in se stesso le virtù del passato. Stalin, il feroce opportunista, fece persino appello alla Chiesa russa. Ed ecco la scena più alta e intensa di tutto il libro di Dostoevskij. Egli descrive la morte in ospedale di un compagno malato di tubercolosi. “Mi rammento ch’egli [Michajlov, un giovane di 25 anni] aveva degli occhi meravigliosi, e veramente non potrei spiegare perché l’episodio della sua morte mi torni ora alla mente con tanta precisione. Morì verso le tre del pomeriggio, in una bella giornata fredda, ma serena. Mi ricordo come i raggi del sole, vividi ed obliqui, penetravano attraverso i vetri verdastri e leggermente coperti di gelo delle finestre della nostra sala. Il disgraziato pareva investito da quel torrente di luce. Egli morì privo di coscienza, e la sua penosa agonia durò alcune ore. Già quel mattino i suoi occhi non riconoscevano più coloro che si avvicinavano al letto. I presenti avrebbero voluto dargli qualche sollievo, poiché si vedeva che soffriva molto. [...] Mezz’ora prima della sua morte, tutti i malati della nostra sala parvero acquietarsi; non si parlava più che a voce sommessa. Chi camminava cercava di non far rumore. Le conversazioni erano cadute da sole. [...] Finalmente entrò il sottufficiale di guardia, con la sciabola al fianco e il berretto in testa, accompagnato da due guardiani dell’ospedale. Egli si diresse verso il morto, rallentando sempre di più il passo... [...] A distanza d’un passo dal cadavere, egli si fermò di botto, come inchiodato sul posto da una timidezza repentina. Quel corpo completamente nudo e disseccato, coi ferri ai piedi, gli produsse evidentemente una forte impressione, e sciogliendo improvvisamente il sottogola, egli si levò il berretto di testa, senza che ciò fosse richiesto dal regolamento, e si segnò con un largo gesto”. Questa è la grande prosa di Dostoevskij: semplice, perché egli ha compreso quali siano le cose essenziali da narrare, e concreta, perché descrive i gesti elementari che esprimono i sentimenti profondi. Nel saggio di Giuseppe Donnini (1901-1982), ‘Dostojevskij vivente’ (Vallecchi, 1936), trovo una bella citazione dalla ‘Vita di Dostojevskij’, scritta dalla figlia Ljubov (1868-1926): “Studiando i suoi compagni di pena, Dostojevskij rese giustizia al loro cuore generoso, alla loro anima ricca e bella ed apprese infine ad amare la sua patria come meritava. Furono gli umili forzati della Siberia che conquistarono il cuore del ‘lituano’ Dostojevskij ad amare per sempre la Russia”.

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