mercoledì 16 marzo 2011

Racconti italiani. "Belgique joyeuse 1960".























 
Ay Marieke Marieke je t'aimais tant
Entre les tours de Bruges et Gand
Ay Marieke Marieke il y a longtemps
Entre les tours de Bruges et Gand
(Jacques Brel)

Ci sono periodi della vita che nel nostro ricordo sembrano avvolti nella nebbia, come se li avessimo attraversati in uno stato di sonnambulismo. Questa impressione di lontananza e di estraneità non sempre è provocata dagli anni che sono passati e da possibili vuoti di memoria, ma qualche volta dipende dal fatto che abbiamo vissuto quei periodi in una condizione di trasognata e quasi felice inconsapevolezza.

Nel 1958 mio fratello Gigino, che aveva da poco preso il diploma di ragioniere, lavorò da aprile a novembre nel padiglione italiano dell’Esposizione universale di Bruxelles. Per tutti quei lunghi mesi Gigino, che aveva poco più di vent’anni, scrisse a casa, indirizzate a nostro padre, almeno due lettere a settimana. Tutte quelle lettere restano come un monumento commovente della sua devozione filiale e del suo candore di ragazzo.
Quando tornò in Italia, orgoglioso dei suoi primi guadagni, riportò degli oggetti che per la nostra famiglia, a quell’epoca, erano delle preziose novità: una macchina fotografica e una fonovaligia, con il corredo di due dischi. Per alcuni anni, finché Gigino non trovò un lavoro stabile, quei primi due dischi rimasero gli unici posseduti. Io ebbi perciò la possibilità di ascoltarli infinite volte e di impararli a memoria. Erano la ‘Sinfonia dal nuovo mondo’, di Antonìn Dvořák, e il concerto per pianoforte l’Imperatore, di Beethoven. Per le audizioni, Gigino tirava fuori dall’armadio la fonovaligia e l’appoggiava delicatamente su uno sgabello imbottito che stava in un angolo della nostra camera; poi spolverava il disco, con gesti quasi solenni, usando un apposito tampone di velluto. Gigino era geloso delle sue cose e le custodiva in una piccola credenza chiusa a chiave. I suoi oggetti poteva toccarli e maneggiarli solo lui. Ma la fonovaligia era troppo grande per entrare nella credenza, e quando Gigino non c’era, io approfittavo della sua assenza per audizioni clandestine.
Le ore della mattina non erano adatte per ascoltare musica classica, perché la luce che filtrava attraverso le nostre tendine di plastica bianca e opaca era sgradevole e contrastava col sogno musicale che io volevo inseguire. Ma il pomeriggio, che non aveva il carattere frettoloso e precario della mattina, l’atmosfera era migliore. Nei pomeriggi invernali, la stanza cominciava presto ad oscurarsi e dalla finestra potevo vedere il cielo blu pulito dalla tramontana; giù nella strada i negozi accendevano le insegne e le luci delle vetrine, e a me sembrava di contemplare lo spettacolo emozionante di una grande città piena di animazione, uscita dalla ‘Sinfonia dal nuovo mondo’, sulla cui custodia erano fotografati i grattacieli illuminati di New York.

A Bruxelles Gigino aveva conosciuto una ragazza di diciotto anni di nome Claudine. Claudine cominciò subito a scrivergli lunghe lettere traboccanti di sentimento. Dopo qualche settimana, lei gli chiese se aveva un amico che volesse scrivere ad una sua compagna di scuola. Mi offrii io, e scrissi una prima lettera che, per enfasi e spavalderia, sembrava un manifesto elettorale. Scrivevo in un modo elaborato; le mie lettere erano dei veri esercizi scolastici. La mia corrispondente si chiamava Suzanne ed era figlia unica di genitori anziani. Scriveva con una grafia minuta e ordinatissima. Si esprimeva con misura e educazione. Le cartoline illustrate che ogni tanto mi mandava mi impressionavano molto. Le prime immagini che conobbi di Bruxelles si fusero con la musica del concerto di Beethoven, che io ascoltavo in continuazione. Mi sembrava che l’Imperatore si armonizzasse bene con l’immagine di una città tetra e monotona, gotica, piovosa, austera e solenne, non priva però di gaiezza e di dolci furfanterie. Nelle foto Suzanne appariva una giovinetta con un grazioso casco di corti capelli castani e due grandi occhi che guardavano fisso con una espressione tremula di attesa. Dopo alcuni mesi, mio fratello, che non amava scrivere, si stancò e rinunciò a Claudine. Per Gigino scrivere ed elaborare fu sempre un supplizio. Gigino era un ragazzo sensibile e intelligente, ma era troppo timido e bloccato. Inoltre non doveva sentirsi a suo agio sotto il diluvio di lusinghe e di abbracci di cui Claudine riempiva le proprie lettere. Per vivere con piacere una relazione dai toni così esaltati, ci sarebbero voluti un sentimento e una fantasia che Gigino non aveva.
Mi offrii allora di corrispondere anche con Claudine, che cominciò a scrivermi con lo stesso impeto con cui scriveva a mio fratello. Nelle sue lettere dichiarava nei confronti di Gigino una passione che sembrava già diventata letteratura o leggenda, anche se fra loro, a Bruxelles, non c’era stato niente: avevano solo fatto qualche passeggiata insieme, in compagnia di amici.
Mio fratello, ragazzo insicuro e introverso, si innamorava solo di donne bellissime e irraggiungibili; e la foga sentimentale di Claudine doveva sembrargli troppo facile, frutto di un equivoco, non rivolta a lui, e perciò l’inclinazione che lei gli dimostrava non lo commuoveva. Lei aveva una scrittura grande ed elementare che corrispondeva perfettamente alla sua persona, quale appariva in fotografia. Alta, piena, con un viso largo e le labbra tumide, sembrava una bagnante di Renoir. In una foto Claudine, ragazza di diciassette o diciotto anni, era seduta accanto alla finestra mentre leggeva un libro. Aveva i capelli legati a coda di cavallo e il viso pieno, con l’orecchio carnoso e le guance bianche illuminate dalla luce. Io ho sempre amato “la donna che legge”, raccolta nel suo composto abbandono, attenta e sognatrice. Fu Claudine che per la prima volta mi fece conoscere alcune poesie di Rimbaud, di Verlaine e di altri poeti anarchici e stravaganti. Il loro desiderio d’amore e di grandi spazi, la loro sensibilità al vento, alla pioggia e alla natura divennero per me il timbro della letteratura francese che amavo.
Per due anni mantenni una corrispondenza vivace con tutte e due le ragazze, alle quali le mie lettere piacevano, probabilmente perché erano animate da uno spavaldo esibizionismo. Ma i rapporti fra noi erano molto corretti. Le nostre lettere erano castissime. Nessuno di noi avrebbe osato concluderle con un’espressione più forte di “saluti affettuosi”, che del resto non saremmo forse stati nemmeno capaci di immaginare.
Durante una gita scolastica in Provenza, le due ragazze tennero un diario comune, che poi mi spedirono, scrivendo ciascuna a giorni alterni. Credo di non aver più provato nella mia vita un sentimento così pieno di beatitudine.
Nel 1960, alla fine dell’anno scolastico, decisi di andare in autostop a Bruxelles per conoscerle.
Mio padre mi finanziò con trentamila lire, che mi bastarono appena per la settimana che durò il viaggio di andata. Partii una mattina di luglio con un vecchio zaino di prima della guerra, prestatomi dal portiere del nostro palazzo. Le tappe furono Firenze, Bologna, Milano, Basilea, Colonia. Partii con un grave pregiudizio nei confronti di una delle ragazze. In quelle settimane era ospite a casa nostra mio cugino Romeo, che era iscritto alla Facoltà di scienze politiche ed era venuto a Roma per dare gli esami. Aveva cinque anni più di me. Era un vanesio che si dichiarava comunista, ma alle elezioni universitarie, per allegro spirito cameratesco, votava per l’associazione fascista Caravella. La serietà mia e di mio fratello lo irritava. Diceva che lui aveva il massimo rispetto per la cultura e la profondità di Gigino, ma che considerava i miei discorsi 'culturali' una pura scimmiottatura. Siccome era disinvolto e vantava un numero impressionante di conquiste femminili, io e mio fratello gli riconoscevamo una immensa superiorità e lo avevamo preso per maestro di vita mondana. Gli feci leggere le ultime lettere di Claudine e di Suzanne, e lui trovò che Suzanne fosse fredda e distaccata, mentre Claudine, secondo lui, era affettuosa e romantica. Nella mia testa si insinuò l’idea deprimente che a Suzanne, che era la mia vera amica e non un’amica cooptata e di complemento, il mio viaggio a Bruxelles non facesse piacere, e dentro di me si operò un veloce cambiamento in favore di Claudine. C’è bisogno di dire che avevo preso un terribile abbaglio? Quel brusco mutamento provocò in Suzanne un dispiacere che non ho mai avuto la possibilità di lenire e il cui ricordo, dopo che la nebbia in cui ero avvolto si fu diradata, mi ha angustiato per decenni. Il mio abbaglio, oltre che doloroso, fu anche ridicolo, perché ispirato da un uomo assolutamente da nulla. Ma la colpa, naturalmente, fu tutta mia.
A Colonia, ormai vicino al traguardo, rinunciai all’autostop e presi il treno per Bruxelles. La prima impressione fu di una città festosa, che, con i suoi tanti immigrati di colore in abiti esotici, sembrava lo scenario di un film di spionaggio o d’avventure, come si poteva vedere allora in tante opere hollywoodiane, che davano dell’Africa un’immagine avventurosa e rassicurante in cui i negri erano sottomessi e tranquilli.
Arrivato in città, sempre dominato dall’opinione di mio cugino Romeo, cercai per prima Claudine e solo il giorno dopo telefonai a Suzanne.
Per una decina di giorni furono i miei angeli custodi: mi pagavano le consumazioni nei locali pubblici, il biglietto d’ingresso nei musei e perfino quello del tram. Ogni mattina Claudine veniva a trovarmi a casa del fratello Arthur, dove alloggiavo, mentre il pomeriggio uscivamo tutti insieme. Suzanne non la vidi mai da sola, ma sempre in compagnia di altri. Io non mi rendevo ben conto di quello che facevo. Mi lasciavo scivolare per la china facile delle sensazioni fisiche e della vanità soddisfatta. Ero come anestetizzato. Claudine era molto seducente. Benché di forme piene, era slanciata, con un passo elastico, occhi dolci, maliziosi, passivi e un po' sornioni. Aveva dei piedi bianchi e paffuti, eppure svelti.
Io avevo diciotto anni e lei venti, ma in fatto di sesso era inesperta quanto me. Arrivava a casa del fratello verso le nove e passavamo un paio d’ore insieme.
Suo fratello Arthur aveva 32 anni, aveva lavorato nel Congo, da cui era tornato di recente per paura delle agitazioni politiche. Era un ometto bruno, sornione e con dei sottili baffetti ironici. Abitava da solo, facendo la vita di un libertino che trovava le donne nei locali pubblici, la sera tardi. Aveva un grande armadio pieno zeppo di libri erotici.
Quando rimanevo in casa con Claudine, ci limitavamo ad abbracciarci. Io ero molto giovane e curioso. Lei dava dei baci lunghi e così pieni e saporiti, che più tardi, mentre pranzavamo da soli a casa dei genitori, ogni volta le ripetevo che, dopo quei baci, la minestra mi sembrava insipida.
Nella tarda mattinata, lasciavamo la casa di Arthur e andavamo a passeggiare in qualche giardino pubblico. Il cielo era d’un bianco latteo e invitava al languore e alla sonnolenza, le foglie degli alberi erano sempre imperlate delle gocce di intermittenti pioggerelline che rendevano l’aria fresca e profumata. Ogni tanto ci sedevamo su una panchina appartata, dove passavamo delle lunghe mezz’ore in estasi come ebeti. Il pomeriggio, se pioveva, Arthur ci portava in automobile a visitare qualche località. Suzanne sedeva sempre davanti, accanto al guidatore, mentre io e Claudine, sul sedile posteriore, ci tenevamo per mano. Claudine non nascondeva la nostra intimità ed io non mi preoccupavo che Suzanne potesse esserne mortificata. Suzanne aveva gli occhi grigi, era graziosa, piccola e minuta, introversa e leale. La sera mangiavamo tutti insieme a casa sua. Siccome nelle mie lettere mi ero vantato di essere comunista, i suoi bigotti genitori mi guardavano con sospetto. Quando lasciai Bruxelles per andare a Gand, dal mio amico René De Winne, che avevo conosciuto a Genova l’anno precedente durante un giro d’Italia in autostop, le due ragazze mi accompagnarono alla periferia della città e rimasero ad aspettare, sul ciglio opposto della strada, che io trovassi un passaggio. Ad un tratto Suzanne attraversò la carreggiata, mi mise in mano una lettera e tornò di corsa dall’amica. Poi un’automobile si fermò ed io partii. Lessi subito la lettera di Suzanne. Esprimeva dolore per il fatto che io, il suo amico, l’avessi ignorata, ma non provava risentimento per me, anzi era mite e affettuosa. Diceva solo che mi ero comportato come un gosse, come un bambino. Sono ancora pieno di ammirazione per la sincerità di quelle parole.
La sera del mio arrivo a casa di René De Winne, nella piatta campagna attorno a Gand, il mio amico mi portò in visita dai suoi conoscenti come un trofeo (cinquant’anni fa le distanze erano molto più consistenti di adesso e Roma sembrava così lontana). La mattina dopo, con la bicicletta di René, rifeci i quarantacinque chilometri fino a Bruxelles e volai alla strada dove abitava Suzanne. Per non perdere nemmeno un secondo attraversai di corsa un negozio di macellaio che aveva una porta sulle scale di lei e salii col fiatone fino al suo appartamento, all’ultimo piano. Aprì la porta sua madre, che, sorpresa di vedermi, assunse un’aria più sospettosa del solito; e poi venne lei. Suzanne mi portò in una brasserie poco lontano da casa sua. Erano appena le dieci del mattino e le sedie erano ancora alzate sui tavoli. In quell’atmosfera provvisoria e sgradevole parlammo un poco, ma fiaccamente.
Io ero tornato di corsa a Bruxelles per riparare, con spirito cavalleresco, un torto che sentivo di averle fatto, ma ero troppo affascinato dalla vicinanza fisica di Claudine per poter rimediare così repentinamente alla mia colpa.
Con semplicità e rettitudine Suzanne mi chiese se, venendo in Belgio, avevo trovato la ragazza che avevo immaginata o se ero stato deluso. Incapace di mentire, ma volendo evitare una risposta chiara e diretta, mi confusi e parlai in modo evasivo e imbrogliato, aumentando la pena di quella breve conversazione.
Ritornai lemme lemme al paesino di René, fermandomi ogni tanto ai banchetti che lungo la via vendevano lumache di mare e patate fritte.
Si fece sera. Le luci già si accendevano nei borghi che fiancheggiavano la strada provinciale per chilometri e chilometri, senza interrompersi mai, ed io ero ancora in viaggio. In quella piatta uniformità, mi sembrava di attraversare un immenso luna-park e non riuscivo più a riconoscere la strada dove svoltare per arrivare a casa del mio amico.





Nessun commento: