
“Anche nella storia di altri popoli, scrive Fülöp-Miller, le rivoluzioni hanno condotto a brutali misure di violenza; ma quella che prima appariva un’assurda contraddizione ed era considerata una negazione e un tradimento dell’idea di libertà, fu in Russia gabellata come una nuova verità, una scoperta fondamentale... In passato quegli stati, quelle classi o quei gruppi che perseguendo i loro scopi si erano serviti della violenza brutale, avevano dovuto tremare davanti al giudizio morale dell’umanità; i Bolscevichi invece professarono apertamente un credo di terrore e lo presero come punto di partenza della loro dottrina di salvazione e della loro etica.
La tanto celebrata ‘ragione pratica’, di cui i Bolscevichi si vantano di essere gli unici scopritori, portò alla conclusione che la felicità dell’umanità può essere raggiunta non già lottando per la libertà morale, ma attraverso un miglioramento introdotto con la costrizione nelle condizioni materiali di vita: la libertà di coscienza dei singoli, la scelta fra il bene e il male, sono nocive e persino pericolose alla felicità delle masse; l’unica via per raggiungere la felicità consiste nella cieca obbedienza”.
“Il giudizio morale del destino e dell’agire umano perdette il suo carattere assoluto; la morale diventò un valore ‘dialetticamente’ relativo, i cui principii furono interamente condizionati dagli interessi di classe del momento”.
“Involontariamente la mente instaura un confronto fra l’interpretazione bolscevica dell’etica e della moralità e le tendenze spirituali del gesuitismo. Dostoievski, il grande veggente, nella sua ‘leggenda del Grande Inquisitore’ che ora appare profetica, ha intuitivamente osservato e svolto l’identità fra il socialismo russo, archetipo del bolscevismo, e le idee gesuitiche... I taccuini di Dostoievski confermano che egli vide nel gesuitismo e nel socialismo lo stesso ‘spirito di liberazione per mezzo del despotismo e di felicità coatta dell’umanità’ ”.
“L’uomo dunque, se vuol diventare felice secondo la concezione bolscevica, deve obbedire non alla verità interiore della propria coscienza, ma ai comandi di autorità le quali si vantano di saper ponderare obbiettivamente, in quanto più accorte, ciò che è migliore e più utile per la collettività”.
Dostoevskij, conclude Fülöp-Miller, aveva prefigurato alla perfezione la società bolscevica. Nel romanzo ‘I Demoni’ (1871), un personaggio afferma: è buona “l’idea dello spionaggio, secondo la quale ciascun membro sorveglia gli altri e ha il dovere di denunciarli quando è necessario. Tutti sono schiavi ed uguali nella loro schiavitù... Prima di tutto si abbassa il livello della cultura, della scienza e delle doti naturali... Noi non abbiamo bisogno di talenti superiori... Gli uomini di talento non possono fare a meno di diventare despoti, perciò è bene scacciarli o giustiziarli”.
Infatti il bolscevismo fu la dittatura delle mediocrità.
“La cultura non è necessaria [cito ancora da ‘I Demoni’]... Ogni sete di cultura è già un impulso aristocratico; aggiungetela alla famiglia e all’amore, e avrete il desiderio della proprietà. Noi lo distruggeremo, questo desiderio; diffonderemo una incredibile demoralizzazione, assassineremo il genio ancora bambino. Tutto sarà ridotto a un comune denominatore, sarà attuata la completa uguaglianza”.
La tanto celebrata ‘ragione pratica’, di cui i Bolscevichi si vantano di essere gli unici scopritori, portò alla conclusione che la felicità dell’umanità può essere raggiunta non già lottando per la libertà morale, ma attraverso un miglioramento introdotto con la costrizione nelle condizioni materiali di vita: la libertà di coscienza dei singoli, la scelta fra il bene e il male, sono nocive e persino pericolose alla felicità delle masse; l’unica via per raggiungere la felicità consiste nella cieca obbedienza”.
“Il giudizio morale del destino e dell’agire umano perdette il suo carattere assoluto; la morale diventò un valore ‘dialetticamente’ relativo, i cui principii furono interamente condizionati dagli interessi di classe del momento”.
“Involontariamente la mente instaura un confronto fra l’interpretazione bolscevica dell’etica e della moralità e le tendenze spirituali del gesuitismo. Dostoievski, il grande veggente, nella sua ‘leggenda del Grande Inquisitore’ che ora appare profetica, ha intuitivamente osservato e svolto l’identità fra il socialismo russo, archetipo del bolscevismo, e le idee gesuitiche... I taccuini di Dostoievski confermano che egli vide nel gesuitismo e nel socialismo lo stesso ‘spirito di liberazione per mezzo del despotismo e di felicità coatta dell’umanità’ ”.
“L’uomo dunque, se vuol diventare felice secondo la concezione bolscevica, deve obbedire non alla verità interiore della propria coscienza, ma ai comandi di autorità le quali si vantano di saper ponderare obbiettivamente, in quanto più accorte, ciò che è migliore e più utile per la collettività”.
Dostoevskij, conclude Fülöp-Miller, aveva prefigurato alla perfezione la società bolscevica. Nel romanzo ‘I Demoni’ (1871), un personaggio afferma: è buona “l’idea dello spionaggio, secondo la quale ciascun membro sorveglia gli altri e ha il dovere di denunciarli quando è necessario. Tutti sono schiavi ed uguali nella loro schiavitù... Prima di tutto si abbassa il livello della cultura, della scienza e delle doti naturali... Noi non abbiamo bisogno di talenti superiori... Gli uomini di talento non possono fare a meno di diventare despoti, perciò è bene scacciarli o giustiziarli”.
Infatti il bolscevismo fu la dittatura delle mediocrità.
“La cultura non è necessaria [cito ancora da ‘I Demoni’]... Ogni sete di cultura è già un impulso aristocratico; aggiungetela alla famiglia e all’amore, e avrete il desiderio della proprietà. Noi lo distruggeremo, questo desiderio; diffonderemo una incredibile demoralizzazione, assassineremo il genio ancora bambino. Tutto sarà ridotto a un comune denominatore, sarà attuata la completa uguaglianza”.
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