martedì 8 febbraio 2011

Ceti medi riflessivi: sindacalisti. 25^ p. (dal libro inedito: Una Italia tascabile. Saggio sulla sagace piccolezza dei funzionari. 2001).


Chi non sa nulla del fatto si effonde sul metodo.
(Gottfried Hermann, citato da Luciano Canfora)

Le caratteristiche personali che hanno permesso a Marrameo di fare la carriera più luminosa a cui potesse aspirare sono parecchie. Non sono qualità né grandi né rare, e tuttavia, ben saldate fra loro e rivolte ad uno scopo perseguito con tenacia, formano un complesso straordinario, come se una tartaruga, con la lingua di un formichiere e le robuste zampette di una talpa, potesse anche guizzare come un’anguilla.
Appena entrato nel nuovo laboratorio di restauro, che all’interno della Biblioteca operava in forma di cooperativa, Marrameo non tardò molto a capire due cose importanti.
La prima fu che per essere un leader bisognava avanzare un obiettivo sentito da tutti. Cominciò presto, quindi, a chiedere che quel personale precario venisse assorbito dallo Stato e sistemato nella rassicurante condizione di impiegati di ruolo.
La seconda intuizione fu che l’attività stessa del restauro, condotta in dimensioni così grandi e in una situazione nuova e senza precedenti, costituiva un campo, suscettibile di grande sviluppo, dove si poteva elaborare, inventare e improvvisare.
Marrameo aveva inoltre la pazienza di leggere le circolari ministeriali e sindacali e altra indispensabile paccottiglia e provava un vero godimento a partecipare alle tante assemblee, che per lui erano un appassionante teatrino, un vitale campo d’azione.
Per alcuni anni si vide continuamente Marrameo in giacca a doppiopetto peregrinare, alla testa di una delegazione formata da altri due o tre compagni di lavoro, fra onorevoli deputati, amministratori democratici, dirigenti politici, alti burocrati, uomini di cultura e addirittura ministri.
Quando per i corridoi della Biblioteca, ormai invasi da operai in camice bianco, si vedevano sfilare con aria solenne questi delegati sbarbati con cura e vestiti come per una festa di prima comunione, si capiva immediatamente che erano in partenza o di ritorno da una missione strategica.
Marrameo aveva anche creato una rivistina per cercar di dare una qualità tecnico-professionale e una eco politico-culturale alla sua battaglia.
Nel primo numero si esordiva subito con le dichiarazioni più generiche e velleitarie:
“Vogliamo aprire, tra l’altro, un discorso sulle biblioteche, oggi più che mai attuale, sul ruolo cioè che la biblioteca si è avviata a rivestire, sulle sue molteplici articolazioni quali la pubblica lettura, le informazioni, la valorizzazione dei fondi antichi e moderni, i rapporti con la scuola, il personale, la sua formazione, anche dal punto di vista conservativo”.
Non è detto che chi enumera i problemi ne abbia anche compreso la natura e sia capace di intravederne la soluzione.
Quella rivistina pretendeva inoltre di collegare il restauro di libri in Biblioteca con una situazione non solo nazionale, ma addirittura universale:
“Sarebbe inutile e dannoso limitare la risoluzione di questi problemi isolandoli dal reale contesto della salvaguardia dell’ambiente naturale, dell’equilibrio ecologico delle specie (alle quali la specie umana è indissolubilmente legata), della salvaguardia delle testimonianze storiche del lavoro e dell’intelligenza umana”.
Marrameo non aveva niente da invidiare al giovane Innocenti. Avevano lo stesso repertorio di frasi fatte ed erano perciò destinati a incontrarsi.
A quei tempi dichiarazioni del genere non erano considerate come le eterne e ricorrenti parole d'ordine, massimaliste e retoriche, con cui gli ambiziosi di mezza tacca sempre nascondono la loro pochezza. Purtroppo capitava anche a persone capaci e oneste di scambiare questa agitazione di fumisterie cosmiche per un positivo e democratico fermento culturale.
Della rivistina uscirono solo quattro numeri, ma Ugo Marrameo, entrato a furor di popolo nel Consiglio dei delegati, l’organismo sindacale del Laboratorio di restauro, continuò con i suoi collaboratori a scrivere documenti, sia politici che tecnici, nei quali descriveva le più semplici operazioni di restauro come se fossero concetti filosofici. Difendeva, per esempio, una sua “teoria della colla” contro tutti coloro che invece sostenevano, sbagliando, teorie diverse e reazionarie.
Dopo qualche anno, trasferito il personale del Centro di restauro nei ruoli degli impiegati statali, Marrameo considerò esaurita la sua missione aziendale e si sentì maturo per intraprendere la carriera di dirigente nazionale, distaccato dal lavoro su richiesta del sindacato.
Tanti operai e impiegati hanno fatto carriera negli anni Settanta e Ottanta dentro il sindacato. Quando le organizzazioni dei lavoratori si sono trasformate in istituzioni solide e prospere, bisognose di capiufficio e di nuovo personale, numerosi sono stati gli attivisti di base, tra i più mediocri e ambiziosi, che sono diventati dirigenti, felici di poter lasciare la fabbrica o l’ufficio.E’ stata una pena vedere operai quarantenni allegramente corpulenti che, abbandonata la produzione perché entrati nella burocrazia sindacale, facevano il footing la domenica mattina nelle strade suburbane per mantenere la linea; una pena sentirli ripetere le forbite frasi fatte raccattate nelle loro assemblee; disgustoso vederli arrivare a metà mattinata alla Camera del Lavoro portando con disinvoltura un fascio di giornali sotto il braccio e gli occhiali da sole anche quando la giornata era grigia e scura. (Fascino degli occhiali da sole! Le persone grigie ne hanno bisogno per sentirsi vagamente partecipi di un mondo immaginario: avventure di città, esotismo vacanziero, emozioni cinematografiche.
Marrameo se ne partì per Roma come Che Guevara per la Bolivia, rivolgendo al personale un saluto gladiatorio che sembra riecheggiare la famosa lettera d’addio del Che a Fidel Castro (“Fidel, in quest’ora mi ricordo di molte cose, di quando ti ho incontrato, di quando mi hai proposto di venire con te, di tutta la tensione dei preparativi...”).
La lettera è divertente:
“Agli amici
non ad altri il mio saluto, e questo certamente non è pretenzioso: parto per mia scelta e alla ricerca del diverso (non nuovo: è tutto sempre più uguale).
Difficile è il parlare o il semplice dire, eppure è normale che quando si lascia una parte di sé o della propria, miserabile vita, si rivolga un saluto.
Per carità, non ripercorrerò tappe o episodi, penso che serva soltanto a rendere più penoso il distacco. Non l’addio, ché non di questo si tratta, quanto piuttosto il rivolgere un pensiero, appunto, a chi vale. Questo in un momento certamente non propizio: ricordiamo il poeta: “... Poi la parola ventosa dei profeti ne scosse le fondamenta / e sono usciti al sole gli scarafaggi e i sorci”, ed è maledettamente più difficile discernere, pensare ed operare. Lascio appunto voi con tutti questi pensieri non certo memorabili: i tempi, del resto, non li permetterebbero anzi si sganascerebbero dalle risa. Le risa mi fanno ritornare in mente (non è vero: le ho ricercate!) queste considerazioni dell’abate Galiani e così ve le ripropongo senza velati ammiccamenti bensì come auctoritates!
‘Nell’ordine essenziale e naturale di questo ammirevole mondo ci sono degli sciocchi e degli uomini d’ingegno. La natura ha voluto (se per altro ha mai voluto qualche cosa) che ognuno vi recitasse una parte. Ora, non ci sono che due parti da recitare: quella di chi comanda e quella di chi consiglia. Non si poteva lasciar consigliare agli sciocchi; non avevano ingegno nemmeno per sragionare. E’ stato dunque necessario che gli sciocchi comandassero, perché se non facessero questo non farebbero nulla di nulla, e sarebbero una superfluità della natura, che non deve avere niente di superfluo, se non se stessa tutta intera’.
Al solito, direte, non se ne va in punta di piedi (pensate solo alle dimensioni: è impossibile!) ma sempre con polemica ed una punta di goliardia.
Certamente non mi era, né mi è indifferente questo lavoro e, appunto, non mi è facile staccarmi; ma so che è opportuno: forse si riscopriranno dimensioni nuove, degli amici, appunto. Il “resto” non conta anzi piange, implora ed è quasi sempre statale. Vedete, non è un saluto politico, nel senso che non usa categorie e linguaggio: discorsi ne abbiamo fatti ed ancora ne faremo. Per una volta mi permetto di non essere storico: accidenti, è troppo pressante e pesante. Un gesto forse, comunque un saluto con un abbraccio e una pacca. Ancora ci incontreremo: è un credo”.
Lo sviluppo successivo della carriera di Marrameo è stato di tutto rispetto.
                                (continua al posto successivo)

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