mercoledì 19 gennaio 2011

Risorgimento italiano. Ottimismo di Benedetto Croce: Storia del Regno di Napoli. A cura di Giuseppe Galasso. Adelphi, 1992.

Ho rispetto per l'erudizione di Benedetto Croce, ammirazione per la sua immensa capacità di lavoro, devozione per la sua figura morale. Però debbo dire con franchezza che questa Storia del Regno di Napoli non solo non mi è piaciuta, ma mi ha irritato. Intanto, non si tratta di una vera storia di Napoli, ma solo di considerazioni su otto secoli di quella storia.
Che Croce, con convinta consapevolezza, dichiari subito nell'Avvertenza di voler procedere proprio in questo modo, non attenua il disagio della lettura. Con questo, non voglio sostenere che ogni volta che si intraprende a raccontare una storia, sia indispensabile rinarrare per filo e per segno tutti gli avvenimenti, ma piuttosto che la forma di esposizione trovata da Croce non ha né fascino né grande chiarezza. Perciò non sono d'accordo con Eduard Fueter, che, in una lettera all'Autore riportata in appendice, scrive che il suo libro "offre anche nell'impostazione generale un autentico modello di come, andando oltre la funesta distinzione fra 'considérations' e narrazione degli eventi esterni, si possa pervenire a una nuova forma che unisca entrambe".
Un autentico modello di questa nuova forma, io lo avrei trovato nel capolavoro di Hippolyte Taine, Le origini della Francia contemporanea, piuttosto che nel libro di Croce, che è un'opera troppo sintetica (sia rispetto ai tanti avvenimenti di cui fa menzione, che a paragone dell'immensa dottrina da cui nasce), ed è, paradossalmente, scritta con una prosa troppo ampia e lenta, che impaccia il lettore come un vestito troppo largo.
Per rimanere alle considerazioni di stile, trovo che Croce, che non mi sembra grande né efficace nelle sintesi e negli affreschi, sia invece ottimo nei ritratti di singoli personaggi.
L'affetto e l'attenzione con cui parla degli "uomini di dottrina e di pensiero, i quali compierono quanto di bene si fece in questo paese" costituiscono un alto valore morale.
E la chiusa del libro è molto commovente: "Benedetta sia sempre la loro memoria e si rinnovi perpetua in noi l'efficacia del loro esempio".
Mi interessava conoscere il giudizio di Croce sugli ultimi anni del Regno delle Due Sicilie e sul modo in cui il Mezzogiorno è stato unito al Regno di Sardegna. La mia delusione è stata totale. Croce giustifica tutto quello che è accaduto, trovandolo inevitabile e benefico.
I liberali napoletani più 'lungiveggenti', "poiché non era possibile far che l'Italia meridionale entrasse energicamente da sola nella nuova via nazionale", scrive Croce a p. 330, "la legarono al carro dell'Italia; poiché l'antico Regno autonomo era diventato un ostacolo, non si lasciarono commuovere da care memorie o turbare da pensieri particolaristici, e sacrificarono senza rimpianto il regno di Napoli, il più antico e vasto stato d'Italia, all'Italia nuova".
E a p. 331 Croce continua: "Dopo la guerra del '59, e mentre i minori stati italiani rapidamente si fondevano e unificavano col Piemonte, si attese indarno che Napoli si sollevasse; e la nuova Italia dové essa dare l'avviata con la politica del Cavour e con la spedizione di Garibaldi".
Benedetto Croce sa tutto e conosce tutto, ma, fisso nella sua idea mistica di comunità nazionale animata da alti pensieri e da profonda vita morale, non vuole capire niente di ciò che non rientra nella sua patriottica e spirituale visione, e niente in effetti capisce.
"... necessaria fu, nel 1860, la dissoluzione del Regno di Napoli," scrive a p. 332, "unico mezzo per conseguire una più larga e alacre vita nazionale, e per dare migliore avviamento agli stessi problemi che travagliavano l'Italia del mezzogiorno".
A noi che viviamo 150 anni dopo quella unificazione e siamo testimoni senza speranza della generale e capillare corruzione nella quale l'Italia e il Mezzogiorno hanno cominciato a scivolare, subito dopo l'unità, con inarrestabile accelerazione, viene naturale considerare retoriche le parole del Croce e ritrovare nel carattere violento e truffaldino di quella unificazione molte ragioni della nostra disastrosa condizione attuale.
Eppure Croce scriveva quelle ed altre enfatiche parole più di 60 anni dopo l'unità e ripubblicò il suo libro ancora 20 anni dopo, nel 1943, limitandosi ad aggiornare la bibliografia.
Di quei lunghi decenni Croce aveva visto tutto, ma, immerso com'era nel suo astratto sogno, aveva capito ben poco.
Il punto più basso di comprensione e di sensibilità, lo tocca quando scrive, a p. 331, che la dinastia borbonica aveva chiamato al suo soccorso le rozze plebi, "non trovando quasi altri campioni che truci e osceni briganti".
L'ottimismo di Croce è a prova di realtà. A p. 342 esalta la "grande nobiltà che [al risorgimento italiano] viene dall'essere sorto non come effetto d'impetuosi interessi economici o di fanatica religione ed orgoglio di stirpe, ma mosso e animato da dignità morale, rischiarato da luce intellettuale, non angusto nella sua rivendicazione della patria, benevolo e fraterno verso gli altri popoli, amici e nemici".
Qui Croce dimostra, per usare un gergo da commentatori di incontri di calcio, di aver visto un'altra partita, un risorgimento immaginario.
Il pur benevolo e affezionato Giustino Fortunato definì "dottrinario" il suo ottimismo, e in una lettera del 1928 a Giovanni Ansaldo scriveva di Croce: "Egli è ottimista, insuperabilmente ottimista. La sua maggiore concezione è questa, che gli uomini si dividono tra ottimisti e pessimisti" (cfr. la lunga Nota del curatore).
Tuttavia io credo di aver trovato una inconsapevole e netta smentita a se stesso nelle parole che Croce scrive a p. 203 e 204, dove dice che è l'irriflessione, e anzi l'inerzia mentale, nei rispetti della vita politica che spiega come l'intonazione degli storici napoletani prima del Settecento si mantenesse costantemente ottimistica. E aggiunge, con convinzione solo libresca: "Ora, il segno effettivo della sollecitudine per la cosa pubblica è la trepidazione e l'angoscia e il pessimismo, come il segno mentale è la critica e la censura: pessimismo bensì non passivo ma attivo, censura concreta e concludente, ma pessimismo e censura sempre".
Di fronte a queste parole, c'è da meravigliarsi che il Croce filosofo non abbia ammonito il Croce storico: "Nosce te ipsum".

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