lunedì 3 febbraio 2025

Leonid Andreev (1871-1919). L'abisso e altri racconti. Biblioteca universale Rizzoli, 1989

Il racconto più importante di questa raccolta è il primo, ‘I sette impiccati’, scritto nel 1908, in epoca ancora zarista, pochi anni prima della Rivoluzione bolscevica. E’ un racconto piuttosto astratto, uno studio della psicologia di sette persone (cinque giovani terroristi e due criminali comuni) condannate a morte e in attesa dell’esecuzione. I motivi ideali che hanno spinto i cinque terroristi a commettere attentati non sono chiariti: i tre ragazzi e le due ragazze sono presentati staccati dal loro ambiente sociale, con una personalità già formata, di cui non si conosce bene l'origine.  Sono più comprensibili, invece, i delitti dei due criminali comuni, la cui misera storia è raccontata con una certa abbondanza di particolari. Giovanna Spendel, nella sua prefazione, scrive che l’elemento socio-politico del racconto rappresenta solo una cornice, un pretesto di cui si serve l’autore per analizzare la condizione di ciascuno dei sette condannati. L’attesa della morte imminente ha l’effetto di un lievito, che sviluppa in essi sentimenti umanissimi, oppure di un solvente, che fa regredire alcuni di loro ad uno stato di infantile paura. In questo lungo studio psicologico, la realtà materiale, il mondo esterno, la Russia del tempo, anche se solo sullo sfondo, sono ben presenti. Di giorno, il frastuono della città, il gaio tintinnìo dei sonagli al collo dei cavallucci, lo scampanellìo dei tram e le trombe delle automobili soffocavano i rintocchi dell’antico orologio sul campanile della fortezza-prigione. Di notte, invece, la melodia triste dei rintocchi si diffondeva lentamente nell’aria come il grido lontano e lamentoso degli uccelli migratori. I genitori di Sergej Golovin vanno a vedere il figlio per l’ultima volta. “Così procedevano in silenzio, curvi, canuti entrambi e vecchi, perduti nei loro pensieri, mentre la città era in festa; era carnevale e per le strade c’era allegria e chiasso”. Anche mentre i sette condannati sono portati al luogo dell’esecuzione, viene descritto il paesaggio intorno a loro: “la bellissima, pura notte primaverile odorava di neve che si scioglieva, di spazio sconfinato, ed era tutta uno sgocciolio sonoro”. Ma il mondo esterno, che pure è presente, non è avvertibile per tutti. Per Vasilij Kaširin, il ragazzo più spaventato dall’imminenza della morte, il mondo ha cessato di esistere: si sentiva “isolato al punto che gli sembrava di essere il solo essere vivente in tutto l’universo […] Fin dal primo giorno di carcere gli uomini e la vita erano divenuti per lui un mondo orribile di fantasmi e di pupazzi”. Persino quando era venuta in visita la mamma per l’ultimo saluto, Vasilij “aveva provato la sensazione ben chiara che quella vecchia avvolta in uno scialletto nero non fosse che un fantoccio meccanico”. La vecchia Russia è presente anche nel modo di parlare del brigante Miška Cygarnok, il più barbaro dei due criminali condannati a morte, spavaldo, insolente e sprezzante. “Noialtri di Orël siamo tutti scavezzacolli” diceva, calmo e posato. Ma poi anche lui cede alla paura e si mette a urlare, pieno di terrore e di dolore: ‘Amici carissimi… amici carissimi… abbiate pietà… Amici carissimi!’. Le sue urla sono così strazianti, che il soldato di guardia, bianco come il gesso, piangendo per l’angoscia e per il terrore, minaccia esasperato di sparargli. Ma le guardie non sparavano mai contro i condannati a morte, anzi nel racconto di Andreev esse sono modeste e gentili, quasi compassionevoli. E anche questo è un ulteriore frammento di vecchia Russia. Anche l’altro criminale comune, il contadino estone Ivan Janson, è un personaggio ricorrente nella letteratura ottocentesca. Parlava malissimo il russo e non apriva quasi mai bocca. Il padrone lo batteva. La cuoca, che lui aveva provato a corteggiare, lo respinge. “Era basso di statura, mingherlino, aveva il viso floscio, seminato di efelidi e i suoi occhietti assonnati apparivano color bottiglia sporca”. Un giorno le sue frustrazioni represse esplodono: ammazza il padrone a coltellate e tenta di stuprare la padrona. In carcere, dominato dal pensiero della morte, finisce di abbrutirsi. “Non pensava a nulla, non contava neppure le ore; stava soltanto in un terrore muto […] come gli animali da macello dopo che li hanno intontiti con una martellata in fronte”. I cinque terroristi politici sono di un’altra pasta. Vasilij Kaširin, dopo essere stato dominato da una paura paralizzante, alla fine trova il coraggio di affrontare la morte a viso aperto. La personalità degli altri quattro si evolve e arriva ad altezze di sublime umanità. Musja era giovanissima, ma la sua austerità e il nero profondo degli occhi dallo sguardo diritto e orgoglioso la facevano sembrare più anziana. Era molto pallida, non di un pallore mortale ma di un biancore luminoso; pareva che dentro le ardesse una grande fiamma e il corpo prendesse la trasparenza di una porcellana di Sèvres. In carcere Musja era felice. Camminava rosea ed eccitata, perché le sembrava una incredibile fortuna che una creatura giovane e insignificante come lei avesse la stessa morte splendida e gloriosa toccata agli eroi e ai martiri. Lei aveva fatto così poco: non era certo un’eroina. Musja pensava: “Possibile che questa sia la morte? Oh, Dio, quanto è bella”. La sua fede nella bontà umana, nella pietà e nell’amore era incrollabile. Aveva uno sconfinato ardore di sacrificio e di eroismo, una assoluta indifferenza verso se stessa. L’altro terrorista che vale la pena conoscere da vicino è Verner (gli altri due, Sergej Golovin e Tanja Koval’čuk, non sono molto diversi). Verner era di bassa statura, con lineamenti fini e aristocratici. Dava l’impressione di una immensa e calma forza, di una fermezza invincibile, di un gelido e insolente coraggio. Prima della condanna a morte, aveva maturato, senza che i compagni lo notassero, un profondo disprezzo per gli uomini. Dopo la condanna, sente pietà per i compagni, soprattutto per Vasilij Kaširin, ma una pietà fredda, quasi ufficiale, come quella che forse provavano gli stessi giudici. La permanenza in carcere, però, lo trasforma. Non prova alcuna paura, e nella sua anima nasce il sentimento di una vaga ma ardita e immensa gioia. “Perché mi sento così leggero, gioioso e libero?”. E la vita gli apparve nuova; mai prima si era sentito così libero e forte come in prigione, a qualche ora dalla morte. E gli uomini si presentavano  ai suoi occhi pieni di luce sotto un aspetto nuovo, cari e attraenti in un modo nuovo. Nella carrozza che li porta di notte al patibolo, Verner capita accanto a Janson. Gli chiede il motivo della sua condanna. “Tagliato mio padrone con coltello. Rubato soldi”. Il contadino aveva una voce strascicata come se stesse per addormentarsi. Verner trovò nel buio la sua mano abbandonata e gliela strinse. La prosa di Andreev, quasi tutta introspettiva, è incalzante e veloce. Il fatto che i cinque giovani terroristi, a differenza dei due criminali comuni, arrivino al giorno dell’esecuzione con tanto coraggio e tanta dignità, potrebbe dimostrare che le motivazioni politiche che li ispiravano hanno avuto una influenza positiva sulla loro coscienza e sul loro carattere. Ma Andreev ignora quelle motivazioni ed esse sono assenti dal racconto. La sublimazione che avviene nei loro sentimenti è commovente ed esemplare, però è  un percorso senza storia e senza giustificazione. In ‘La morte di Ivan Iljìc’ di Tolstoj, il superamento della paura e del dolore e la conquista della libertà interiore avvengono in un modo realistico e credibile; qui, invece, appaiono come un miracoloso dono del cielo.

 

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