Il racconto più importante di questa raccolta è il
primo, ‘I sette impiccati’, scritto nel 1908, in epoca ancora zarista, pochi
anni prima della Rivoluzione bolscevica. E’ un racconto piuttosto astratto, uno
studio della psicologia di sette persone (cinque giovani terroristi e due
criminali comuni) condannate a morte e in attesa dell’esecuzione. I motivi
ideali che hanno spinto i cinque terroristi a commettere attentati non sono chiariti:
i tre ragazzi e le due ragazze sono presentati staccati dal loro ambiente
sociale, con una personalità già formata, di cui non si conosce bene l'origine.
Sono più comprensibili, invece, i
delitti dei due criminali comuni, la cui misera storia è raccontata con una
certa abbondanza di particolari. Giovanna Spendel, nella sua prefazione, scrive
che l’elemento socio-politico del racconto rappresenta solo una cornice, un
pretesto di cui si serve l’autore per analizzare la condizione di ciascuno dei
sette condannati. L’attesa della morte imminente ha l’effetto di un lievito,
che sviluppa in essi sentimenti umanissimi, oppure di un solvente, che fa
regredire alcuni di loro ad uno stato di infantile paura. In questo lungo
studio psicologico, la realtà materiale, il mondo esterno, la Russia del tempo,
anche se solo sullo sfondo, sono ben presenti. Di giorno, il frastuono della
città, il gaio tintinnìo dei sonagli al collo dei cavallucci, lo scampanellìo
dei tram e le trombe delle automobili soffocavano i rintocchi dell’antico
orologio sul campanile della fortezza-prigione. Di notte, invece, la melodia
triste dei rintocchi si diffondeva lentamente nell’aria come il grido lontano e
lamentoso degli uccelli migratori. I genitori di Sergej Golovin vanno a vedere
il figlio per l’ultima volta. “Così procedevano in silenzio, curvi, canuti
entrambi e vecchi, perduti nei loro pensieri, mentre la città era in festa; era
carnevale e per le strade c’era allegria e chiasso”. Anche mentre i sette
condannati sono portati al luogo dell’esecuzione, viene descritto il paesaggio intorno a loro: “la bellissima, pura notte primaverile odorava di
neve che si scioglieva, di spazio sconfinato, ed era tutta uno sgocciolio
sonoro”. Ma il mondo esterno, che pure è presente, non è avvertibile per
tutti. Per Vasilij Kaširin, il ragazzo più spaventato dall’imminenza della
morte, il mondo ha cessato di esistere: si sentiva “isolato al punto che gli
sembrava di essere il solo essere vivente in tutto l’universo […] Fin dal primo
giorno di carcere gli uomini e la vita erano divenuti per lui un mondo orribile
di fantasmi e di pupazzi”. Persino quando era venuta in visita la mamma per
l’ultimo saluto, Vasilij “aveva provato la sensazione ben chiara che quella
vecchia avvolta in uno scialletto nero non fosse che un fantoccio meccanico”. La
vecchia Russia è presente anche nel modo di parlare del brigante Miška
Cygarnok, il più barbaro dei due criminali condannati a morte, spavaldo,
insolente e sprezzante. “Noialtri di Orël siamo tutti scavezzacolli” diceva,
calmo e posato. Ma poi anche lui cede alla paura e si mette a urlare, pieno di
terrore e di dolore: ‘Amici carissimi… amici carissimi… abbiate pietà… Amici
carissimi!’. Le sue urla sono così strazianti, che il soldato di guardia,
bianco come il gesso, piangendo per l’angoscia e per il terrore, minaccia
esasperato di sparargli. Ma le guardie non sparavano mai contro i condannati a
morte, anzi nel racconto di Andreev esse sono modeste e gentili, quasi
compassionevoli. E anche questo è un ulteriore frammento di vecchia Russia.
Anche l’altro criminale comune, il contadino estone Ivan Janson, è un personaggio
ricorrente nella letteratura ottocentesca. Parlava malissimo il russo e non apriva
quasi mai bocca. Il padrone lo batteva. La cuoca, che lui aveva provato a
corteggiare, lo respinge. “Era basso di statura, mingherlino, aveva il viso
floscio, seminato di efelidi e i suoi occhietti assonnati apparivano color
bottiglia sporca”. Un giorno le sue frustrazioni represse esplodono: ammazza il
padrone a coltellate e tenta di stuprare la padrona. In carcere, dominato dal
pensiero della morte, finisce di abbrutirsi. “Non pensava a nulla, non contava
neppure le ore; stava soltanto in un terrore muto […] come gli animali da
macello dopo che li hanno intontiti con una martellata in fronte”. I cinque
terroristi politici sono di un’altra pasta. Vasilij Kaširin, dopo essere stato
dominato da una paura paralizzante, alla fine trova il coraggio di affrontare
la morte a viso aperto. La personalità degli altri quattro si evolve e arriva
ad altezze di sublime umanità. Musja era giovanissima, ma la sua austerità e il
nero profondo degli occhi dallo sguardo diritto e orgoglioso la facevano
sembrare più anziana. Era molto pallida, non di un pallore mortale ma di un
biancore luminoso; pareva che dentro le ardesse una grande fiamma e il corpo
prendesse la trasparenza di una porcellana di Sèvres. In carcere Musja era
felice. Camminava rosea ed eccitata, perché le sembrava una incredibile fortuna
che una creatura giovane e insignificante come lei avesse la stessa morte
splendida e gloriosa toccata agli eroi e ai martiri. Lei aveva fatto così poco:
non era certo un’eroina. Musja pensava: “Possibile che questa sia la morte? Oh,
Dio, quanto è bella”. La sua fede nella bontà umana, nella pietà e nell’amore
era incrollabile. Aveva uno sconfinato ardore di sacrificio e di eroismo, una
assoluta indifferenza verso se stessa. L’altro terrorista che vale la pena
conoscere da vicino è Verner (gli altri due, Sergej Golovin e Tanja Koval’čuk,
non sono molto diversi). Verner era di bassa statura, con lineamenti fini e
aristocratici. Dava l’impressione di una immensa e calma forza, di una fermezza
invincibile, di un gelido e insolente coraggio. Prima della condanna a morte,
aveva maturato, senza che i compagni lo notassero, un profondo disprezzo per
gli uomini. Dopo la condanna, sente pietà per i compagni, soprattutto per
Vasilij Kaširin, ma una pietà fredda, quasi ufficiale, come quella che forse
provavano gli stessi giudici. La permanenza in carcere, però, lo trasforma. Non prova alcuna paura, e nella sua anima nasce il sentimento di una vaga ma ardita e
immensa gioia. “Perché mi sento così leggero, gioioso e libero?”. E la vita gli
apparve nuova; mai prima si era sentito così libero e forte come in prigione, a
qualche ora dalla morte. E gli uomini si presentavano ai suoi occhi pieni di luce sotto un aspetto
nuovo, cari e attraenti in un modo nuovo. Nella carrozza che li porta di notte
al patibolo, Verner capita accanto a Janson. Gli chiede il motivo della sua
condanna. “Tagliato mio padrone con coltello. Rubato soldi”. Il contadino aveva
una voce strascicata come se stesse per addormentarsi. Verner trovò nel buio la
sua mano abbandonata e gliela strinse. La prosa di Andreev, quasi tutta
introspettiva, è incalzante e veloce. Il fatto che i cinque giovani terroristi,
a differenza dei due criminali comuni, arrivino al giorno dell’esecuzione con
tanto coraggio e tanta dignità, potrebbe dimostrare che le motivazioni
politiche che li ispiravano hanno avuto una influenza positiva sulla loro
coscienza e sul loro carattere. Ma Andreev ignora quelle motivazioni ed esse sono
assenti dal racconto. La sublimazione che avviene nei loro sentimenti è commovente
ed esemplare, però è un
percorso senza storia e senza giustificazione. In ‘La morte di Ivan Iljìc’ di
Tolstoj, il superamento della paura e del dolore e la conquista della libertà
interiore avvengono in un modo realistico e credibile; qui, invece, appaiono come
un miracoloso dono del cielo.
lunedì 3 febbraio 2025
Leonid Andreev (1871-1919). L'abisso e altri racconti. Biblioteca universale Rizzoli, 1989
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