Questo libro, pubblicato in Germania nel 1965, basato sull’esperienza della ricostruzione delle città tedesche nel secondo dopoguerra, non ha perso niente, dopo oltre sessant’anni, del suo valore di denuncia. Mitscherlich non era né un architetto né un urbanista, ma uno psicologo, e non si occupava dell’estetica della città, ma degli effetti psicologici che i brutti edifici, costruiti e ammassati senza criterio e senza rispetto per le esigenze umane, hanno sulle persone che vi abitano.
L’Autore dichiara di aver voluto scrivere un pamphlet “per mettere alla
gogna la tristezza dei tempi” (già allora!); egli non aveva ancora perso la
speranza che le cose potessero cambiare, “sol che si possieda il coraggio di
capire”, ma in realtà non si faceva molte illusioni. Ed aveva ragione! Io non
conosco le città tedesche, ma sono abbastanza sicuro che esse abbiano avuto
(probabilmente in una maniera meno indecente) lo stesso sviluppo delle città
italiane, devastate dalla speculazione. Le nostre città non sono semplicemente
inospitali (come dice il titolo originale del pamphlet), ma addirittura invivibili.
Questo è oggi sotto gli occhi di tutti, (da qui in poi faccio la parafrasi del
pamphlet di Mitscherlich) anche se l’abitudine ottunde la sensibilità e noi non
battiamo ciglio quando gli alberi vengono abbattuti e si drizzano le gru e quando
i giardini vengono inondati dall’asfalto. Il deserto urbano va estendendosi; perciò
noi dovremmo porre un freno alla devastazione in grande stile delle città e
all’immane distruzione del paesaggio. La città avrebbe due importanti funzioni:
per un verso essere il luogo della sicurezza, della produzione, del
soddisfacimento di molti bisogni vitali. Per un altro verso la città dovrebbe costituire
il terreno nutritivo, l’humus della coscienza umana, l’unico luogo che ne renda
possibile lo sviluppo. Oggi, però, scriveva l’Autore sessant’anni fa, non è più
così. Oggi la città, estendendosi smisuratamente, si è disgregata. La gente
danarosa è emigrata nei sobborghi, dove ha perduto ogni freno, ogni residuo di
dignità urbana, ogni senso degli obblighi che la città borghese una volta imponeva. Passeggiando per i sobborghi a
villette di Germania, Italia, Olanda, Inghilterra, ecc., si resta sopraffatti
dall’orrore del comfort, dalla monotonia e dal cattivo gusto. Le nostre città
rendono depressi gli abitanti. “Noi dopo la guerra abbiamo sciupato l’occasione
di edificare città pensate con più raziocinio, città autenticamente nuove”. La
città configurata, cioè pensata in un modo melodico, può diventare una patria, cioè
il luogo che ci dà identità e coscienza, quella invece semplicemente
agglomerata, non potrà mai diventare una patria. Si costruiscono case su case
in una disastrosa confusione o in una uniformità rigida e spaventosa. Le
vecchie città avevano un cuore. Oggi la monotonia degli elementi architettonici
e la moltiplicazione meccanica delle case nelle città-giardino è una prova
disgustosa di incapacità artistica e di egoismo. Le nostre città si
provincializzano e diventano inospitali, e decade l’alta
civiltà urbana che fu un tempo il centro di diffusione dei lumi.
Mitscherlich non ha alcuna fiducia che i partiti politici e le istituzioni
possano vincere la battaglia contro la speculazione. In modo, credo, retorico,
egli si appella al coraggio civile degli urbanisti e degli architetti. Ma dove
sono costoro? Le cose cambieranno solo quando lo scontento degli sfruttati
abitanti delle città ‘avrà assunto forme precise’, cioè, immagino, quando sarà diventato generale e organizzato in
forme politiche. Ma anche qui l’ottimismo di Mitscherlich tentenna, perché egli
sa bene che la capacità di adattamento dell’abitante della città è straordinaria. E oltre all’immensa capacità di adattamento
dei cittadini, è attiva una schiera di ‘tranquillizzatori occulti’, sociologi e
altri intellettuali, che si occupano vilmente di lodare, giustificare e far
accettare alla massa “quanto di irrisolto, di brutale, di spregevole c’è nel
nostro presente”. Costoro, affetti da moderno snobismo, ritengono di essere
vicini alla realtà e illuminati perché non partecipano ai sogni sentimentali
rivolti al passato. Per esempio, il ‘vicinato’ è un concetto che essi
respingono, è parola intrisa di sentimentalismo, ma questa parola conserva invece
il suo grande valore. Senza un vicinato che influisca sul piano emozionale, non
può sorgere una umanità matura. Nelle nostre città si cerca di soddisfare i
vari bisogni prescindendo dalla comunicazione. “La completa dissoluzione della
socialità urbana si rispecchia nella parola self-service”. Nei quartieri
residenziali, con quei caseggiati a cinque piani, schierati in fila l’uno
accanto all’altro, ben difficilmente una umanità urbana riesce a svilupparsi.
Se è ben tenuta e ordinata, la città diventa oggetto d’amore per i suoi
cittadini; diventa il consolante involucro nelle ore della disperazione e lo
scenario luminoso nei giorni festivi. Nella molteplicità delle sue funzioni, la
città rappresenta un mondo più antico di quello paterno. Le città armoniose del
passato sono tutte molto più che la somma delle loro strade e dei loro edifici.
Le città finora sono cresciute in un assai intenso nesso di interazioni tra gli
abitanti. E’ disastroso volerne programmare la crescita come si programma la
produzione di automobili. Il cittadino è oggi concepito dai costruttori non
come un individuo vivente, ma come un’entità astratta, un consumatore di vani
d’abitazione. Le sue esigenze umane non hanno alcuna importanza e sono
completamente ignorate. “Si stipino gli impiegati dietro le facciate di vetro
tutte uguali dei grattacieli e poi ancora nella monotonia del loro casamento
d’abitazione, e avremo vanificato ogni pianificazione in vista di una libertà
democratica. Purtroppo, come già detto, anche ciò che è più disumano e bizzarro
viene legittimato e santificato dall’abitudine. Sappiamo dalla storia che molte
società si sono ostinatamente adattate a condizioni di vita di cronico
immiserimento, a un ambiente miserabile. Del resto possiamo vedere anche oggi,
sia all’est che all’ovest, un processo di adattamento alla forma di vita
piccolo-borghese, un tempo tanto disprezzata dal proletariato rivoluzionario.
Le piante delle abitazioni offrono la migliore espressione della esistenza di
una borghesia raggrinzita. L’individuo può preservare la propria identità solo
se ha la possibilità di coltivare costanti rapporti con gli altri. Nella realtà
urbana di oggi [anni Cinquanta] questa esigenza viene del tutto trascurata.
L’impoverimento di relazioni durevoli nelle città provoca l’appiattimento e
l’impoverimento della capacità dei cittadini di partecipare alla vita comune e
di conseguenza un immiserimento dell’esperienza della vita. Mai in precedenza
nella storia si è avuta, per le esigenze dello ‘sviluppo tecnico’, una
distruzione così irresponsabile delle tradizioni che sorreggevano un ricco
tessuto di rapporti umani. E anche nei luoghi di vacanza, dove si crede di
trovare un ambiente sereno e libero, c’è lo stesso mondo urbano da cui si
fugge: tutti si ritrovano alla fine in alberghi e bungalow fatti alla stessa
maniera, con gli stessi elementi edilizi, nella medesima distribuzione delle
masse, si tratti del Westerland o di Rimini, delle coste della Florida o di
Cortina, di Davos o di Kitzbühel.


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