lunedì 4 agosto 2025

Alexander Mitscherlich (1908-1982). Il feticcio urbano. La città inabitabile, istigatrice di discordia. Einaudi, 1972


 Questo libro, pubblicato in Germania nel 1965, basato sull’esperienza della ricostruzione delle città tedesche nel secondo dopoguerra, non ha perso niente, dopo oltre sessant’anni, del suo valore di denuncia. Mitscherlich non era né un architetto né un urbanista, ma uno psicologo, e non si occupava dell’estetica della città, ma degli effetti psicologici che i brutti edifici, costruiti e ammassati senza criterio e senza rispetto per le esigenze umane, hanno sulle persone che vi abitano.

L’Autore dichiara di aver voluto scrivere un pamphlet “per mettere alla gogna la tristezza dei tempi” (già allora!); egli non aveva ancora perso la speranza che le cose potessero cambiare, “sol che si possieda il coraggio di capire”, ma in realtà non si faceva molte illusioni. Ed aveva ragione! Io non conosco le città tedesche, ma sono abbastanza sicuro che esse abbiano avuto (probabilmente in una maniera meno indecente) lo stesso sviluppo delle città italiane, devastate dalla speculazione. Le nostre città non sono semplicemente inospitali (come dice il titolo originale del pamphlet), ma addirittura invivibili. Questo è oggi sotto gli occhi di tutti, (da qui in poi faccio la parafrasi del pamphlet di Mitscherlich) anche se l’abitudine ottunde la sensibilità e noi non battiamo ciglio quando gli alberi vengono abbattuti e si drizzano le gru e quando i giardini vengono inondati dall’asfalto. Il deserto urbano va estendendosi; perciò noi dovremmo porre un freno alla devastazione in grande stile delle città e all’immane distruzione del paesaggio. La città avrebbe due importanti funzioni: per un verso essere il luogo della sicurezza, della produzione, del soddisfacimento di molti bisogni vitali. Per un altro verso la città dovrebbe costituire il terreno nutritivo, l’humus della coscienza umana, l’unico luogo che ne renda possibile lo sviluppo. Oggi, però, scriveva l’Autore sessant’anni fa, non è più così. Oggi la città, estendendosi smisuratamente, si è disgregata. La gente danarosa è emigrata nei sobborghi, dove ha perduto ogni freno, ogni residuo di dignità urbana, ogni senso degli obblighi che la città borghese una  volta imponeva. Passeggiando per i sobborghi a villette di Germania, Italia, Olanda, Inghilterra, ecc., si resta sopraffatti dall’orrore del comfort, dalla monotonia e dal cattivo gusto. Le nostre città rendono depressi gli abitanti. “Noi dopo la guerra abbiamo sciupato l’occasione di edificare città pensate con più raziocinio, città autenticamente nuove”. La città configurata, cioè pensata in un modo melodico, può diventare una patria, cioè il luogo che ci dà identità e coscienza, quella invece semplicemente agglomerata, non potrà mai diventare una patria. Si costruiscono case su case in una disastrosa confusione o in una uniformità rigida e spaventosa. Le vecchie città avevano un cuore. Oggi la monotonia degli elementi architettonici e la moltiplicazione meccanica delle case nelle città-giardino è una prova disgustosa di incapacità artistica e di egoismo. Le nostre città si provincializzano e diventano inospitali, e decade l’alta

civiltà urbana che fu un tempo il centro di diffusione dei lumi. Mitscherlich non ha alcuna fiducia che i partiti politici e le istituzioni possano vincere la battaglia contro la speculazione. In modo, credo, retorico, egli si appella al coraggio civile degli urbanisti e degli architetti. Ma dove sono costoro? Le cose cambieranno solo quando lo scontento degli sfruttati abitanti delle città ‘avrà assunto forme precise’, cioè, immagino, quando  sarà diventato generale e organizzato in forme politiche. Ma anche qui l’ottimismo di Mitscherlich tentenna, perché egli sa bene che la capacità di adattamento dell’abitante della città è straordinaria.  E oltre all’immensa capacità di adattamento dei cittadini, è attiva una schiera di ‘tranquillizzatori occulti’, sociologi e altri intellettuali, che si occupano vilmente di lodare, giustificare e far accettare alla massa “quanto di irrisolto, di brutale, di spregevole c’è nel nostro presente”. Costoro, affetti da moderno snobismo, ritengono di essere vicini alla realtà e illuminati perché non partecipano ai sogni sentimentali rivolti al passato. Per esempio, il ‘vicinato’ è un concetto che essi respingono, è parola intrisa di sentimentalismo, ma questa parola conserva invece il suo grande valore. Senza un vicinato che influisca sul piano emozionale, non può sorgere una umanità matura. Nelle nostre città si cerca di soddisfare i vari bisogni prescindendo dalla comunicazione. “La completa dissoluzione della socialità urbana si rispecchia nella parola self-service”. Nei quartieri residenziali, con quei caseggiati a cinque piani, schierati in fila l’uno accanto all’altro, ben difficilmente una umanità urbana riesce a svilupparsi. Se è ben tenuta e ordinata, la città diventa oggetto d’amore per i suoi cittadini; diventa il consolante involucro nelle ore della disperazione e lo scenario luminoso nei giorni festivi. Nella molteplicità delle sue funzioni, la città rappresenta un mondo più antico di quello paterno. Le città armoniose del passato sono tutte molto più che la somma delle loro strade e dei loro edifici. Le città finora sono cresciute in un assai intenso nesso di interazioni tra gli abitanti. E’ disastroso volerne programmare la crescita come si programma la produzione di automobili. Il cittadino è oggi concepito dai costruttori non come un individuo vivente, ma come un’entità astratta, un consumatore di vani d’abitazione. Le sue esigenze umane non hanno alcuna importanza e sono completamente ignorate. “Si stipino gli impiegati dietro le facciate di vetro tutte uguali dei grattacieli e poi ancora nella monotonia del loro casamento d’abitazione, e avremo vanificato ogni pianificazione in vista di una libertà democratica. Purtroppo, come già detto, anche ciò che è più disumano e bizzarro viene legittimato e santificato dall’abitudine. Sappiamo dalla storia che molte società si sono ostinatamente adattate a condizioni di vita di cronico immiserimento, a un ambiente miserabile. Del resto possiamo vedere anche oggi, sia all’est che all’ovest, un processo di adattamento alla forma di vita piccolo-borghese, un tempo tanto disprezzata dal proletariato rivoluzionario. Le piante delle abitazioni offrono la migliore espressione della esistenza di una borghesia raggrinzita. L’individuo può preservare la propria identità solo se ha la possibilità di coltivare costanti rapporti con gli altri. Nella realtà urbana di oggi [anni Cinquanta] questa esigenza viene del tutto trascurata. L’impoverimento di relazioni durevoli nelle città provoca l’appiattimento e l’impoverimento della capacità dei cittadini di partecipare alla vita comune e di conseguenza un immiserimento dell’esperienza della vita. Mai in precedenza nella storia si è avuta, per le esigenze dello ‘sviluppo tecnico’, una distruzione così irresponsabile delle tradizioni che sorreggevano un ricco tessuto di rapporti umani. E anche nei luoghi di vacanza, dove si crede di trovare un ambiente sereno e libero, c’è lo stesso mondo urbano da cui si fugge: tutti si ritrovano alla fine in alberghi e bungalow fatti alla stessa maniera, con gli stessi elementi edilizi, nella medesima distribuzione delle masse, si tratti del Westerland o di Rimini, delle coste della Florida o di Cortina, di Davos o di Kitzbühel.

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