domenica 24 marzo 2024

Renata Viganò (1900-1976). L'Agnese va a morire. Einaudi, 1975

Di questo libro ho letto l’edizione pubblicata da Einaudi nella collana ‘Letture per la scuola media’. Ma questa a me non sembra affatto una lettura adatta alla scuola media. E’ un romanzo troppo concentrato, troppo intenso, discretamente lento e noioso, che rivela le sue quasi nascoste qualità solo a condizione di una attenzione straordinaria e di una buona esperienza di lettore. A leggere il catalogo della collana, non si sfugge all’impressione che essa fosse ispirata da un orientamento progressista-velleitario che, nel concreto, non si curava affatto dell’educazione effettiva della gioventù.

La prosa di Renata Viganò è semplice, senza toni lirici e senza enfasi, ma il sentimento che la anima è così forte che molto spesso le parole più semplici diventano indimenticabili. La moglie (o la sorella) del partigiano Magòn appare nel romanzo solo per pochi attimi: “bella e sciupata", ed è subito una figura cara che resta impressa nel ricordo. Tre amici del marito fanno visita ad Agnese, donna cinquantenne solitaria, ruvida e scontrosa, dopo che i tedeschi glielo hanno portato via. “Buonasera, siamo venuti a trovarvi”, dice uno dei tre, con la commovente franchezza delle persone semplici. Un giovanotto (il figlio di Cencio) è riuscito a fuggire dal convoglio che deportava i paesani rastrellati dai tedeschi, ed è venuto a casa di Agnese a raccontare com'è morto il marito. Ogni volta che, dopo una pausa, riprende il filo del discorso, ricomincia con un commovente: “Dunque…”, come un cantastorie del popolo. Quando i partigiani cominciano a richiedere la sua opera, Agnese risponde sempre: “Se sono buona…”. Parole, queste, che non sono la risposta di una persona esitante e ritrosa, ma di una donna semplice che si offre totalmente per una causa per lei del tutto nuova, ma da lei sin dal primo momento sentita come giusta. La sensibilità della Viganò è in sintonia con quella delle persone semplici e trova sempre le parole adatte. “Non ci fate del male”, dice uno sfollato ai partigiani. E un giovane fascista catturato dai partigiani esprime così la sua paura e la sua speranza: “Mi lasciate andare?... Posso andare?". Tutti gli altri [partigiani], adesso, si erano alzati, e quel movimento spaventò il prigioniero". - Le descrizioni di paesaggio occupano la metà del libro, ed è sempre lo stesso paesaggio: palude, campagne allagate, canali, argini, strade polverose tra un villaggio e l’altro. Non c’è mai un paesaggio urbano. D’estate questo paesaggio è a volte amichevole,  e i partigiani sono allegri e si sentono quasi in vacanza, ma spesso è soffocante e insopportabile. Una ragazza, Rina, passa un breve tempo in una base di partigiani nella palude, dove sta il suo fidanzato. Sulla via di tornare in paese, “sentiva ancora sui capelli, sui vestiti, il fiato scialbo della palude, quel calore bagnato, quel sudore che non si asciugava mai […] Le pareva già di sentire il terreno sodo, battuto, la polvere bianca sotto le scarpe; e vedere case a destra, a sinistra, un mondo di vivi, dopo la morta larghezza della palude”. D’inverno, con la neve, i canali ghiacciati e il freddo rigidissimo, il paesaggio è un ostacolo in più. “Il Comandante, Clinto e ‘La Disperata’ tornarono nel pomeriggio, si trassero dietro un’ondata di freddo. Il cielo era lontano e sereno, il gelo si stabiliva nell’aria, era una cosa solida, luminosa, trasparente, che levava il fiato. Aveva un odore sano, sincero, l’odore delle pure sere d’inverno nei grandi spazi di campagna senza case, di acqua senza barche”. E ancora. “Fuori era un freddo terribile. Il sole gelido cadeva sulla neve dura come la pietra. La tramontana precipitava a tratti, scuotendo la nuda immobilità della campagna, il cielo curvo e vuoto”. “C’era una nebbia azzurra, un velo di seta lucente che vestiva gli scheletri degli alberi. La neve non cedeva sotto i passi: era una crosta liscia su cui scivolavano le scarpe come pattini. Si faceva fatica a stare in piedi”. - Gli invasori tedeschi sono sempre visti come esseri mostruosi. Mentre con gli italiani troppo tiepidi, troppo paurosi ed egoisti si può ancora discutere e litigare, coi soldati tedeschi non c’è alcuna possibilità di conciliazione, nessuna pietà: per loro c’è solo un odio mortale. “Un piccolo camion sbucò dalla strada, frenò sull’aia, i tedeschi saltarono a terra. L’aia, la campagna, il mondo furono guastati dai loro aspetti meccanici disumani, pelle, ciglia, capelli quasi tutti di un solo colore sbiadito, e occhi stretti, crudeli, opachi come di vetro sporco. I mitra sembravano parte di essi, della loro stessa sostanza viva”. “Emerse poi la voce di un comandante, con uno di quei gridi rotti, inumani, invasati, che tutti al mondo riconoscono subito per tedeschi”. Un soldato tedesco che interrogava Agnese e Rina, e guardava le gambe della giovane donna, “ad un tratto si mise a ridere, ma solo con la bocca piena di denti di metallo, gli occhi rimasero gli stessi, fissi e liquidi come se fossero pieni d’acqua”. Le due donne, per ingraziarselo, gli offrono da mangiare. “La Rina lo guardava mangiare. Vedeva con gioia i grossi pezzi di pane, le fette rosse di salame cacciati dentro quella bocca larga e smorta, i sorsi di vino rovesciati in gola come in un buco aperto”.  - Il sentimento ispirato della Viganò crea scene semplicissime piene di suggestione. In un gruppo di donne, “una si voltò e disse: “Hanno preso anche mio marito, e poi Ivo, Silvio, il figlio di Cencio, Ottavio del mulino…”; ad ogni nome segnava una delle compagne, e tutte si misero a piangere con i fazzoletti sulla  faccia”. Questa scena a me sembra un potente quadro religioso. E in un altro luogo del romanzo c’è una scena che fa pensare all'Inferno di Dante. “Sull’argine passò un gruppo di uomini, circondati e spinti avanti dai tedeschi; dietro venivano delle donne piangenti, e pregavano e imprecavano”. - Se il suo giudizio sui soldati di Hitler è pesantissimo, la Viganò non si fa illusioni nemmeno sugli alleati americani e inglesi, che bombardano con disinvoltura e cinismo la popolazione civile. Viene distrutta la bella casa di Walter, che si trova in campagna, lontano dalle altre case. “Ma passarono gli aerei alleati, sopra, al ritorno dal bombardamento, e avevano qualche bomba rimasta. Forse un aviatore, di buon umore perché rientrava al campo, disse al compagno di volo: “Scommetto che ci prendo in quella casa là”, - (agli anglo-americani piacciono le scommesse), - e il collega rispose: “Scommetto di no”. “Allora proviamo?”. “Proviamo”, e fissarono la posta in dollari o sterline”. Forse può sembrare un sarcasmo gratuito, questo della Viganò, ma la verità è che, dall'8 settembre 1943 alla fine della guerra, i bombardamenti anglo-americani hanno ucciso 38.939 civili (fonte Wikipedia). Mi sembra quindi un sarcasmo ben diretto e lungimirante e, per quel che ne so, del tutto isolato nel 1949, quando “L’Agnese va a morire” vinse il Premio Viareggio. Chissà se Antonio Caprarica, il giornalista anglofilo che si veste come Lord Brummell e che dichiara a ogni piè sospinto che noi dobbiamo essere riconoscenti agli americani perché ci hanno liberati, ha almeno sfogliato questo romanzo. Forse ignora che, in tutta la campagna d'Italia, i soldati americani morti sono stati solo 1400. Una "liberazione" veramente a buon mercato. - Per concludere. La Viganò non sa soltanto cogliere molte fuggevoli sfumature poetiche nelle azioni dei suoi personaggi, che pure sono individui elementari e, direi, appena abbozzati, ma rivela anche la capacità di narrare in modo vivo e drammatico, quando descrive, per esempio, i combattimenti contro i  soldati tedeschi. Alla fine del romanzo i nazisti prevarranno sulla esigua brigata di partigiani di cui la Viganò ha raccontato la vita difficile e l'ultimo sacrificio. "... Tutta la compagnia si lanciò lungo il pendìo, la prima scarica li colse a metà, non colpì nessuno, li arrestò solamente. Videro a un tratto i campi popolarsi di tedeschi, cappotti grigi in cerchio; nelle siepi, dietro gli alberi, dai fossi sorgevano gli elmetti tedeschi...". Quasi tutti i partigiani saranno sterminati.

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