Il libro di Huizinga fu pubblicato nel 1935. Dai soliti ottimisti progressisti l’autore fu accusato di essere un catastrofista, ma oggi,
più di ottant’anni dopo, la storia implacabile del nostro tempo conferma in modo irrefutabile le sue analisi
e previsioni; i timori di Huizinga sembrano
oggi fin troppo miti di fronte alle
prospettive che ci stanno di fronte, e l’esile fiducia riposta dall’autore
nella possibilità di salvezza della civiltà (“È necessaria una purificazione interiore che
prenda tutto l’individuo”) appare molto ingenua e persino puerile. Non è affatto paradossale, scrive Huizinga, affermare che una civiltà
con un progresso realissimo e innegabile potrebbe arrivare alla propria rovina.
Oggi (l'autore parla degli anni Trenta del Novecento) sembra molto ingenua quella felice
illusione dell’ultimo secolo, che il progresso della scienza e l’istruzione allargata
a tutti garantirebbero una convivenza sempre più perfetta. Chi crede oggi
ancora sul serio che trasformando i trionfi della scienza teorica in trionfi
ancor più stupendi della tecnica si salvi la cultura? o che la distruzione dell’analfabetismo
significhi la fine della barbarie? L’odierna società pervasa di cultura e in
parte meccanizzata ha un aspetto ben diverso dal sogno progressista di allora.
Ci sono sintomi di indebolimento del raziocinio. La follia mai come oggi ha
celebrato le sue orge pel mondo. Huizinga non si limita a esprimere convinzioni
generiche, ma affronta temi particolari: la cultura, l’arte, la pubblicità, lo
sport, la radio, i divertimenti, i giochi dei ragazzi… Dappertutto gli atteggiamenti passivi crescono continuamente in confronto a
quelli attivi. Ne consegue un afflosciarsi dell’anima e del vigore della
odierna cultura. Nozioni d’ogni genere, in una misura mai pensata finora, e
allestita in modi mai immaginati, vengono messe a portata delle masse. Ma un
sapere non elaborato è d’ostacolo al raziocinio e sbarra la via alla
saggezza. L’istruzione rende sotto-istruiti. Dopo l’avvento delle varie forme di despotismo
popolare, “l’eroismo” è diventato una
parola d’ordine, un paragrafo del programma, una nuova morale. Questo è il
segno più eloquente della nuova tendenza verso l’immediatezza della vita e dell’esperienza,
lungi dalla conoscenza e dalla comprensione, che può essere considerata il
nucleo della crisi culturale odierna: magnificazione dell’azione per se stessa,
intorpidimento del senso critico per mezzo di forti eccitamenti alla volontà,
annebbiamento delle idee per mezzo di una bella illusione. L’anteporre il
vivere al comprendere obbliga ad abbandonare, insieme con i precetti
intellettuali, anche quelli morali. Huizinga critica gli effetti dello
straordinario sviluppo della tecnica. L’uomo vive letteralmente nel suo mondo
di prodigi come un fanciullo, è anzi un fanciullo di fiaba. Può viaggiare in
aereo, parlare con un altro emisfero, portarsi a casa un pezzo di mondo colla radio.
Preme un bottone e la vita gli affluisce incontro. Può una tale vita renderlo
emancipato? Al contrario. La vita per lui diventa un giocattolo. Non c’è da
meravigliarsi che egli si comporti come un bambino. Alla fine degli anni Trenta del secolo scorso,
Vittorio Foa scriveva dal carcere ai genitori: “Ho letto un libro di un certo
Huizinga intitolato “La crisi della civiltà”: ciò che è penoso non è che certa
roba si scriva e si stampi, ma è pensare che certo avrà avuto un grande
successo. È in sostanza un pamphlet antinazista, ma è così stupido da suscitare
quasi, è tutto dire, la simpatia per i nazisti… Guardatevi dal leggerlo”. Sull’ottuso ottimismo di Foa ho scritto nel
post precedente, commentando le sue lettere dal carcere. Molto più grave mi sembra l’incomprensione
di Delio Cantimori che in una recensione del 1936 fece a
pezzi il libro di Huizinga, definendolo “lo sfogo d’uno spirito d’artista
individualistico, liberaleggiante contro questo mondo moderno che non gli va”, e con insopportabile presunzione aggiungeva: “Nulla lo soddisfa: è il
destino dei letterati che vogliono occuparsi di politica senza pensare che
questa è una cosa seria, che non ha posto pei begli spiriti né per le anime
belle”. Ma questa di Cantimori era una interpretazione meschina che travisava volutamente il testo: Huizinga non parlava da letterato ma da storico, e la storia è la categoria che comprende la generalità dei fatti
umani, compresa la politica del "fare qualcosa", del "cambiare in qualche modo qualcosa" che Cantimori agita come una nobile bandiera, politica che del resto qui non c'entra niente, perché il libro di Huizinga va ben oltre questa vaga dimensione modestamente pragmatica. Questa edizione Einaudi del
1966 ha una introduzione aggiornata proprio di Cantimori, che, pur fra vacui elogi all'autore, conferma la sua
antica stroncatura aggravandola con un pesante e prolisso eruditismo e con troppo facili etichettature psicologiche. "Non è un contemporaneo che parla, è un uomo di un'altra età [...] Si tratta del grido d'angoscia di un uomo di un altro mondo, nell'accorgersi che questo suo mondo si disfa, che questo suo periodo si chiude, che quella sua epoca sta per finire". Scritte negli anni Sessanta, quando il processo di imbarbarimento della vita sociale aveva cominciato da tempo a diventare capillare e su questi argomenti erano già state pubblicate opere di autori importanti (Mumford, Zolla, Sedlmayr), queste parole di Cantimori, storico eminente, fanno vergogna. Anche a lui ben si adattano le parole che Nietzsche rivolgeva ai professori del suo tempo: "L'uomo colto è degenerato nel più grande nemico della cultura, perché vuole dissimulare la malattia generale ed è di ostacolo ai medici".
martedì 2 marzo 2021
Johan Huizinga (1872-1945), La crisi della civiltà. Einaudi, 1966.
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