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Elena Kožina, nata a Mosca nel 1933, si trasferì a Leningrado ancora bambina, prima della seconda guerra mondiale. L’assedio tedesco alla città, iniziato nell’autunno del 1941, durerà fino a gennaio del 1944. Nel febbraio del 1942, molti cittadini di Leningrado, dopo un viaggio sulla ‘Strada della vita’ attraverso il ghiaccio del lago Ladoga, scapparono su un treno bestiame diretti verso sud, in una zona ancora libera. Tra quegli sfollati c’erano anche Elena Kožina e la sua famiglia (il padre era ufficiale al fronte). Sul treno il freddo e la fame facevano molte vittime. “A ogni fermata le porte del vagone si aprivano con un colpo, e i barellieri sbirciavano dentro. ‘Avete morti?’, domandavano [...] A ogni fermata il vagone diventava più spazioso, a mano a mano che i morti venivano scaricati [...] Alla fermata di Čerepovec toccò a mio fratello maggiore, Vadik, che non visse abbastanza per vedere il suo decimo compleanno”.
“Alla fermata di Kuščevka, a ottanta chilometri da Rostov, non potemmo più proseguire. Le strade erano state interrotte, le linee ferroviarie distrutte dagli attacchi aerei”.
La famigliola di Elena si sistema nel villaggio, circondata dalla diffidenza della popolazione cosacca ostile ai comunisti.
La bambina si ammala seriamente. “Prima che tornassi tra i vivi, la nonna e la sorellina [Tanja, di tre anni] erano morte”. Rimangono solo Elena e la mamma.
Poco dopo il loro arrivo a Kuščevka, le truppe naziste occuparono il villaggio cosacco, il 31 luglio del 1942, e gli sfollati da Leningrado dovettero vivere per sette mesi, fino al 23 febbraio del 1943, sotto il comando tedesco.
Il libro della Kožina racconta quei sette lunghi mesi vissuti con la paura quotidiana dei tedeschi, e si arresta a qualche tempo successivo alla ritirata dei nemici. Il racconto però non è lineare ma inframezzato da ricordi sia anteriori (quando la famiglia viveva ancora felice a Leningrado e quando doveva affrontare le durissime condizioni dei primi mesi di assedio), sia posteriori (il difficile ritorno a Leningrado, gli studi universitari e il lavoro di storica dell’arte al museo dell’Ermitage). Da una nota editoriale si apprende che la Kožina lasciò negli anni Ottanta l’Unione Sovietica e che all’epoca della pubblicazione del libro viveva a New York con il marito e il figlio.
Questi ricordi offrono sempre immagini vivide e lapidarie.
Leningrado assediata. “Da alcuni giorni vicino al portone c’era il corpo congelato di un uomo... Bloccava il passaggio e dovevamo scavalcarlo”.
“Un pomeriggio la mamma tornò sconvolta dall’emporio. Aveva incontrato un camion carico di corpi nudi, accatastati ordinatamente come tronchi... I capelli di una ragazza si erano sciolti, ricordava la mamma, e la sua treccia bionda sbatteva contro la fiancata”.
“A volte si vedeva una persona immobile contro un muro, il volto nascosto dal fazzoletto da testa o dal bavero”. Non si capiva se fosse già morta o ancora viva.
La mamma di Elena ogni mattina andava al fiume trascinandosi dietro una slitta piena di recipienti, e attraverso una breccia nel ghiaccio li riempiva d’acqua; poi portava un recipiente alla volta fino al terzo piano di casa sua. “Saliva e ridiscendeva, saliva e ridiscendeva”.
I ricordi della mamma. “La mamma aveva una qualità soprannaturale: era incapace di mentire”. “La mamma, con la sua sincerità, tracciava sempre una riga netta e impietosa tra verità e mezza verità”. “Tutto in lei era già pronto a un’ostinata resistenza, a sfidare la sfortuna e le circostanze infelici”. Durante la fuga verso sud sul vagone bestiame, la mamma si era ferita al pollice. La ferita si infettò, ma nonostante cure prolungate il dito non guariva. “Una mattina... in silenzio, aveva preso il coltello più affilato, si era voltata, aveva messo il dito su una tavola e ne aveva tagliato la metà superiore”.
(continua al post successivo)
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