L’eroico colonnello
Chabert, creduto morto nella battaglia di Eylau combattendo contro i russi
(febbraio 1807), torna a Parigi dopo molti anni di vagabondaggi. Ha difficoltà
a farsi riconoscere dalla moglie, che, essendosi risposata e appropriata del
suo patrimonio, finge di considerarlo un impostore. L’abile avvocato Derville,
che aiuta con generosità il povero reduce, mette la donna, ora contessa
Ferraud, nella condizione di non poter più disconoscere il primo marito e di
dovergli almeno restituire una parte del patrimonio. La contessa, sentendo che
Chabert è ancora innamorato di lei, si atteggia a vittima infelice, sicura
della grande nobiltà d’animo del marito, e cerca di indurlo a scomparire e a firmare
una rinuncia legale a ogni pretesa. Commosso dalla pena della donna, Chabert
sta per cedere, quando, per puro caso, scopre che la moglie, mossa da egoismo,
ha solo simulato interesse e gratitudine per lui e che vorrebbe invece farlo
rinchiudere in manicomio. Per disgusto e disprezzo, il poveruomo abbandona di
fatto il suo patrimonio nelle mani della moglie e torna ad una vita di
vagabondaggi, che si concluderà in un ospizio.
Il racconto è
compatto e scolpito con mano maestra. Il realismo di Balzac è feroce e privo di
illusioni. Irriso e misconosciuto da tutti, il colonnello Chabert, uomo di “selvatico
pudore” e di “severa probità”, sente che “il mondo sociale e quello giudiziario
gli pesavano sul petto come un incubo”. Per raccontare all’avvocato Derville
perché avesse rinunciato a contrattare con la moglie una giusta rendita, il
colonnello afferma: “Sono stato improvvisamente colpito da una malattia, il
disgusto dell’umanità [...] Infine è meglio avere l’oro nei propri sentimenti
che sui vestiti”.
La graziosa
contessa Ferraud, già moglie del colonnello, capace di mille moine e di simulare
i sentimenti più teneri, ma arida, egoista e senza scrupoli, è un personaggio
indimenticabile, benché tratteggiato brevemente, perché è assolutamente vero.
Chi non ha conosciuto donne così temibili? Una sorella, una zia, una vicina di
casa, una collega di lavoro...
Alla fine del
racconto, l’avvocato Derville lascia la sua attività con queste parole: “Tutti
gli orrori che i romanzieri credono di inventare sono sempre ben poco, di
fronte alla verità [...] Io vado a vivere in campagna con mia moglie. Parigi mi
fa orrore”.
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“Un episodio ai tempi del Terrore” è un breve racconto di
appena una ventina di pagine, con un finale a sorpresa come un romanzo
d’appendice. Un prete e due suore anziane, di origine aristocratica, che si
nascondono alla Rivoluzione, celebrano nel loro fatiscente appartamento pieno
di umidità e di crepe la santa messa. Per questo sacro rito usano le povere
stoviglie domestiche. “L’acqua e il vino, destinati al santo sacrificio, erano
contenuti in due bicchieri degni della più infima osteria [...] Un piatto qualunque
era preparato per la abluzione delle mani innocenti e pure di sangue. Tutto era
immenso, ma piccolo; povero, ma nobile, profano e santo nello stesso tempo”. I
cuori dei partecipanti sono puri e sereni, pieni di calma fiducia in Dio. Anche
la prosa di Balzac è pacata come quella di un padre della Chiesa che descriva
la vita dei primi cristiani nelle catacombe. Il realismo umanistico di Balzac
mostra il pentimento dell’uomo che ghigliottinò Luigi XVI (e che ora chiede al
sacerdote di celebrare una messa funebre in memoria del re) e la profonda
vigliaccheria della coppia di pasticcieri che vende le ostie per le sacre
funzioni. Forse la viltà dei pasticcieri, che si rivelano spaventatissimi subito dopo
una dimostrazione di banale benevolenza, è quasi più sorprendente del
pentimento del boia.
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