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Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), Rubè. A. Mondadori, 1974.

"Rubè" è un romanzo importante, molto elaborato, costruito con intenzione molto consapevole, con grande intelligenza e penetrazione, però è un romanzo sgradevole per la lingua quasi sempre artificiosamente sostenuta che, lungi dall'avere una affabile o almeno realistica concretezza, deforma e imbruttisce le persone e le cose. Il romanzo è sgradevole anche perché il personaggio principale non è così rappresentativo, come affermato da molti critici, della temperie morale e politica del primo dopoguerra. Rubè è un piccolo e un po' sordido parvenu, senza affetti né idealità, che egli è soltanto capace di simulare a seconda delle occasioni e della possibilità di fare bella figura. Il conflitto che egli ha con se stesso non ha una qualità morale, ma è una lacerazione che deriva da una sconfinata e inappagata ambizione sociale. Rubè sembra piuttosto figlio di quelle atmosfere squallide e malate di certi romanzi russi dell'Ottocento (penso, per es., a "Delitto e castigo"). Dopo che Borgese ha determinato le caratteristiche di meschinità del personaggio, esso, pur dotato di una brillante ma vuota intelligenza, non può che svilupparsi secondo quei primordiali segni distintivi, e quando l'autore vuole attribuire alla sua sofferenza un valore culturale e storico ampio e significativo, compie, secondo me, una forzatura velleitaria. Tutti gli altri personaggi, tranne alcune figurine più o meno sbiadite di contorno, e Sara, la contadina verace incontrata da Rubè nel suo ultimo viaggio al paese natìo, sono piuttosto innaturali e deprimenti, disegnati in modo caricaturale e legati con sarcasmo ad un unico tic, ad una unica frase, ad una ridicola caratteristica fisica.
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