Al Bar Elena, sulla piazzetta di Vidiciatico affollata di villeggianti, qualche settimana fa una
coppia ha attirato la mia attenzione. Lui era un ometto magro, con i capelli scarruffati come quelli di Woody
Allen, ma molto composto e diritto, una barba di tre o quattro giorni, occhietti pungenti, occhialetti tondi, una leggera giacchetta estiva sopra una camicia regolare e, nonostante
il caldo, un foulard attorno al collo. Teneva sottobraccio un fascio di
giornali: la Repubblica, il Manifesto e il Fatto Quotidiano. Mentre pagava la colazione,
notai che aveva dei gesti molto brevi e misurati e che le sue mani avevano dei pollici lunghi e incurvati verso l’alto, ad arco. L’aspetto complessivo era quello di un
insegnante; ma quelle mani, che non si muovevano con una libertà naturale ma con una, direi, rigida eleganza, erano antipatiche.
La compagna, che sembrava molto più giovane, doveva avere 45/50 anni. Era
piuttosto in carne, portava dei sandali e una catenina ad una caviglia, e aveva lo sguardo mansueto di una pecora. Una gran massa di capelli le arrivava fin sotto le spalle e un ampio scialle traforato la copriva
come un poncho.
Appena li ho visti, ho riconosciuto
subito i personaggi convenzionali che rappresentavano. Avrei potuto chiamarli per
nome, ricordando coppie simili conosciute in passato: Leonardo e Isabella, oppure Roberto e Teresa, o anche Sergio e Valeria. Rivedendoli, i giorni successivi, seduti al tavolino, fuori del bar, sempre uguali, distaccati e indifferenti alla gente intorno, raccogliere golosamente la schiuma del cappuccino dal fondo della tazza vuota, con il giornale sotto gli occhi, ho provato nausea per la
prevedibilità dei loro pensieri.
La crisi della sinistra viene da molto lontano, è cominciata tanto tempo
fa, ma i radical chic si sono diffusi e moltiplicati solo negli ultimi decenni. Quando
io ero ragazzo, i comunisti avevano già cominciato da un pezzo a dimenticare che il loro primo compito
era di interpretare i fatti della realtà restando fedeli a dei grandi principi morali, e vivevano di belle parole. Ma
questo snaturamento non sembrava allora così scandaloso, perché nel clima del dopoguerra e della ricostruzione era un fenomeno ancora poco visibile, ben nascosto dalla propaganda e dalla retorica di partito, e poi perché c’erano
ancora momenti di vera lotta di classe. Le strutture della società, ancora vecchie e autoritarie, davano senso allo spirito antagonistico che ci animava. Non aveva ancora trionfato quella scialba ideologia democratica che è oggi dilagante. Il radical chic di massa è
nato proprio quando è prevalsa ed è diventata universale una fiacca rivendicazione di generica democrazia, avvolta
in una nuvola di facili mistificazioni. E’ andata smarrita la conoscenza di chi sia il
vero nemico, e si è perduta, naturalmente, anche la
voglia di lottare. Il radical chic non è disposto a fare sacrifici, a esporsi e
correre dei rischi personali per le idee che dice di professare. Aderisce passivamente alle mistificazioni
che gli sembrano più democratiche, e queste, assieme allo stile del suo abbigliamento e a qualche altro gesto o comportamento eretti a simbolo, bastano ad appagare il suo sentimento di superiore diversità.
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