domenica 11 novembre 2018

William L. Shirer, Diario di Berlino (1934-1947). Giulio Einaudi editore, 1967.


Oltre a questo libro, l’americano Shirer (1904-1993) ha scritto una chiara e avvincente “Storia del Terzo Reich”. Ma questo Diario è un libro prezioso perché è fatto di osservazioni sul campo, in presa diretta, e di commenti e giudizi di prima mano, così acuti da diventare nei decenni successivi senso comune.
Accenno qui solo a uno  degli infiniti motivi di riflessione offerti dal diario. Tornato in Germania dopo la guerra, alla fine del 1945, dopo cinque anni di assenza, Shirer osserva che i tedeschi non sono affatto pentiti per ciò che il nazismo ha fatto. “Non hanno alcun senso di colpa e non provano rimorsi. La maggior parte dei tedeschi pensano semplicemente di essere stati sfortunati”. Questo è il sentimento più grande che ispira tutta la seconda parte del diario, dall’autunno del 1945 alla primavera del 1947.
“E non si deve dimenticare che questi criminali, coi loro disegni brutali e disumani erano gli eroi di questa terra tragicamente segnata dal destino. Folle intere li applaudivano per le strade. Gli operai li applaudivano nelle fabbriche. L’intera nazione tedesca li aveva seguiti non solo disciplinatamente, ma con entusiasmo”. Anche il processo di Norimberga, per la maggior parte dei tedeschi, è solo un atto illegale e propagandistico.
Shirer trova irresponsabile l’indulgenza verso i tedeschi di Usa, Francia e Inghilterra, che addirittura affidano incarichi di responsabilità, anche alla direzione di giornali, ad ex nazisti, e trascurano ogni progetto di denazificazione.
Shirer riporta per intero una lunga e storica lettera di Thomas Mann, nella quale il grande scrittore spiega perché preferisce non tornare in Germania. “E’ mai possibile, scrive Mann, che questi dodici anni e quanto ne è seguito vengano cancellati come se fossero scritti su una lavagna, ed è mai possibile che noi ci comportiamo come se non fossero mai trascorsi?”. Mann critica aspramente il direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler, che aveva tranquillamente convissuto col nazismo. “Un direttore  d’orchestra già inviato da Hitler per dirigere concerti di Beethoven a Zurigo, Parigi o Budapest, si rende colpevole di una oscena bugia quando accampa il pretesto di essere stato un musicista, e di essersi occupato soltanto di musica”, perché, ribadisce Mann, era “impossibile produrre della cultura in Germania, mentre succedevano le cose che sappiamo. Scrivere significava mettere in ghingheri la depravazione e il delitto”. Shirer annota che Furtwängler venne assolto, il 17 dicembre 1946, da un tribunale berlinese di denazificazione, ma aggiunge queste profonde parole che esprimono un principio sublime: “Il vero crimine commesso da Furtwängler era uno di quelli che il piccolo, tremante tribunale berlinese di denazificazione non tentò nemmeno di configurare: mancanza di senso morale e di integrità. Non era però quello il crimine principale di cui si era reso colpevole l’intero popolo tedesco?... Ahimè, gli artisti hanno mancato di coraggio e di integrità né più né meno degli altri tedeschi, e il popolo tedesco, chiedendo che quegli artisti filonazisti tornassero alle luci della ribalta, ha dimostrato ancora una volta di non essere cambiato nel fondo del cuore, di non essersi modificato. Avremo sempre una Germania, prevedo, e, almeno per la durata delle nostre vite, sarà sempre la stessa”.

Nessun commento: