Oltre a questo libro, l’americano Shirer (1904-1993) ha scritto una chiara
e avvincente “Storia del Terzo Reich”. Ma questo Diario è un libro prezioso
perché è fatto di osservazioni sul campo, in presa diretta, e di commenti e
giudizi di prima mano, così acuti da diventare nei decenni successivi senso
comune.
Accenno qui solo a uno degli
infiniti motivi di riflessione offerti dal diario. Tornato in Germania dopo la
guerra, alla fine del 1945, dopo cinque anni di assenza, Shirer osserva che i
tedeschi non sono affatto pentiti per ciò che il nazismo ha fatto. “Non hanno
alcun senso di colpa e non provano rimorsi. La maggior parte dei tedeschi
pensano semplicemente di essere stati sfortunati”. Questo è il sentimento più
grande che ispira tutta la seconda parte del diario, dall’autunno del 1945 alla
primavera del 1947.
“E non si deve dimenticare che questi criminali, coi loro disegni brutali e
disumani erano gli eroi di questa terra tragicamente segnata dal destino. Folle
intere li applaudivano per le strade. Gli operai li applaudivano nelle
fabbriche. L’intera nazione tedesca li aveva seguiti non solo
disciplinatamente, ma con entusiasmo”. Anche il processo di Norimberga, per la
maggior parte dei tedeschi, è solo un atto illegale e propagandistico.
Shirer trova irresponsabile l’indulgenza verso i tedeschi di Usa, Francia e
Inghilterra, che addirittura affidano incarichi di responsabilità, anche alla
direzione di giornali, ad ex nazisti, e trascurano ogni progetto di
denazificazione.
Shirer riporta per intero una lunga e storica lettera di Thomas Mann, nella
quale il grande scrittore spiega perché preferisce non tornare in Germania. “E’
mai possibile, scrive Mann, che questi dodici anni e quanto ne è seguito
vengano cancellati come se fossero scritti su una lavagna, ed è mai possibile
che noi ci comportiamo come se non fossero mai trascorsi?”. Mann critica
aspramente il direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler, che aveva
tranquillamente convissuto col nazismo. “Un direttore d’orchestra già inviato da Hitler per dirigere
concerti di Beethoven a Zurigo, Parigi o Budapest, si rende colpevole di una
oscena bugia quando accampa il pretesto di essere stato un musicista, e di
essersi occupato soltanto di musica”, perché, ribadisce Mann, era “impossibile
produrre della cultura in Germania, mentre succedevano le cose che sappiamo.
Scrivere significava mettere in ghingheri la depravazione e il delitto”. Shirer
annota che Furtwängler venne assolto, il 17 dicembre 1946, da un tribunale
berlinese di denazificazione, ma aggiunge queste profonde parole che esprimono
un principio sublime: “Il vero crimine commesso da Furtwängler era uno di quelli
che il piccolo, tremante tribunale berlinese di denazificazione non tentò
nemmeno di configurare: mancanza di senso morale e di integrità. Non era però
quello il crimine principale di cui si era reso colpevole l’intero popolo
tedesco?... Ahimè, gli artisti hanno mancato di coraggio e di integrità né più
né meno degli altri tedeschi, e il popolo tedesco, chiedendo che quegli artisti
filonazisti tornassero alle luci della ribalta, ha dimostrato ancora una volta
di non essere cambiato nel fondo del cuore, di non essersi modificato. Avremo
sempre una Germania, prevedo, e, almeno per la durata delle nostre vite, sarà
sempre la stessa”.
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