Qualche
notte fa, ho sognato di passeggiare con Giuseppe Ferrini. Nel sogno, mentre
camminavamo, io gli dicevo accoratamente: “Caro Ferrini, sento la tua mancanza; da quando
sei morto, sono più solo”. E’ morto all’inizio di febbraio scorso in ospedale.
Era malato, ma non sembrava in pericolo di vita. Poche ore prima che morisse
improvvisamente, avevamo parlato al telefono e avevamo scherzato sul fatto che
stesse in carrozzella attaccato al catetere. “Beato te!”, gli avevo detto. “Io invece
devo sempre trattenermi e poi correre…”.
Avevamo
lavorato nello stesso istituto per una trentina d’anni, ignorandoci
completamente. Poi all’improvviso, poco più di due anni fa, mi telefonò spinto
probabilmente da qualcuno di quei ricordi che, all'inizio quasi impercettibili come microscopici semi, diventano col passare del tempo e con
la distanza grandi e importanti. Così negli ultimi due anni della sua vita siamo stati molto amici.
Due estati fa, passò una settimana a Bari con me e mia moglie. Lo
trascinavo in lunghe camminate ed escursioni, e lui, benché con un po’ di
sofferenza (che tutti e due credevamo passeggera), mi seguiva volenterosamente.
Passammo un pomeriggio indimenticabile a Palo del Colle, dove fummo estasiati
dalla magnifica chiesa barocca, nell’alta piazza storica del paese, rimasta intatta
all’interno come tre secoli fa, dove si sentiva in modo palpabile l’atmosfera
fosca dell’Inquisizione e la paura dell’Inferno.
Ferrini era
un uomo solo, fragile, sensibile e insicuro, ma non chiuso in se stesso. Era
anzi un estroverso che cercava sempre gli altri, in modo impetuoso e qualche volta caotico, e un formidabile mangiatore. Invecchiando, aveva anche
imparato un poco a disprezzare le opinioni mediocri della gente.
Era nato
a Linari, un borghetto agricolo vicino a Poggibonsi, dove il padre lavorava per
un grande proprietario terriero. Mi portò a Linari a vedere la casa della sua
infanzia, la chiesa e la scuola ormai in rovina. Sarebbe stato felice di sapere che Linari è citata tre volte in una novella di Franco Sacchetti. Io l'ho letta solo di recente: "Parcittadino da Linari vagliatore [di grano] si fa uomo di corte". Quando Parcittadino torna in Toscana, "andò a rivedere gli suoi parenti vagliatori da Linari, tutti polverosi di vagliatura e poveri". Già alle elementari Ferrini era un
bambino spaurito. Ogni mattina la madre lo esortava: “Raccomandati all’angelo
custode!”. Passò alcuni anni in collegio a Firenze, dove fece anche il liceo
classico. Venuto da un ambiente cattolico tradizionalista, dove si parlava un
toscano dialettale, dovette subire la ferocia dei disinvolti e
progressisti studenti di città. Una volta, per aver detto “s’èramo” invece di
“eravamo”, fu messo alla gogna dai suoi compagni di scuola, che pure avrebbero dovuto sapere che quell'èramo era il latino 'eramus'. Per sentirsi
sulla cresta dell’onda, cercò anche lui di essere progressista e marxista, ma
non ci riuscì. Non poteva sopportare il velleitarismo conformista dei sinistrorsi. Quando ci siamo ritrovati, dopo la nostra lunga esperienza in
Biblioteca, ho scoperto con piacere che anche lui, nonostante la sua estrema
mitezza, giudicava i piccoli leader dell’impiegatume di sinistra e i vacui
teorici della biblioteconomia con severo sdegno.
Ferrini
ha passato la vita votandosi a delle “cause” e appassionandosi per attività
magari frivole ma che lui svolgeva o seguiva con serietà, entusiasmo e spirito
di sacrificio: aiutare e assistere per anni qualche persona che ammirava, fare
il tifo per la squadra di calcio di Firenze, studiare la Bibbia, fare – gratis – il
cameriere in una mensa parrocchiale, seguire per tutte le città d'Italia gli spettacoli teatrali delle compagnie più importanti e fare amicizia con attori e registi, che lui, con uno
slancio che era un innamoramento e che sembrava contraddire la sua
timidezza, riusciva a conoscere e a
frequentare.
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