
Lenin era un grande ammiratore di Frederick Taylor (1856-1915). Il fatto che il lavoratore fosse la rotella meno efficiente dell’intero processo produttivo – presupposto del taylorismo – si accordava pienamente con la visione leniniana della classe operaia russa. Lenin vedeva i metodi ‘scientifici’ di quella dottrina come uno strumento per riplasmare operai e società secondo un modello più controllabile e uniforme. Tutto ciò era in perfetta linea con la fede modernista nel potere delle macchine di trasformare l’uomo e l’universo. L’esponente più radicale dell’idea taylorista era Aleksej Gastev (1882-1941), l’ingegnere e poeta bolscevico che preconizzava la meccanizzazione di pressoché ogni aspetto della vita sovietica, dai metodi di produzione ai modelli di pensiero dell’uomo comune (p. 395). A capo dell’Istituto centrale del lavoro, costituito nel 1920, Gastev aveva l’obiettivo di trasformare l’operaio in una sorta di ‘robot umano’. Questi automi sarebbero stati come macchine, ‘incapaci di pensiero individuale’ e avrebbero semplicemente obbedito al loro dispositivo di controllo. Un ‘collettivismo meccanizzato’ avrebbe “preso il posto della personalità individuale nella psicologia del proletariato”. Non ci sarebbe più stato bisogno di emozioni, e l’anima umana non sarebbe più stata valutata “da un grido o da un sorriso, ma da un manometro o da un tachimetro”. Questo è il paradiso sovietico satireggiato da Evgenij Zamjatin (1884-1937) nel romanzo ‘Noi’, nel quale si descrive un mondo futuribile di razionalità e alta tecnologia, con esseri simili a robot designati da numeri e non da nomi, la cui vita è totalmente controllata dallo Stato unico e dal suo despota, il Benefattore. Fu proprio il romanzo di Zamjatin a ispirare ‘1984’ di George Orwell (p. 396).
Niente illustra meglio la realtà quotidiana della rivoluzione come la trasformazione dello spazio domestico (p. 378), che fu sempre più sottratto alla gestione delle famiglie private e collettivizzato. La ‘guerra contro i palazzi’ condotta dai sovietici era una guerra contro il privilegio e i simboli culturali del passato zarista. Ma era anche una crociata per costruire uno stile di vita più comunitario. Costringendo le persone a condividere gli alloggi collettivi, i bolscevichi pensavano di renderle più comuniste nel modo di pensare e di comportarsi.
Nei primi anni della rivoluzione, il progetto comportava la socializzazione dei servizi esistenti: a ogni famiglia veniva assegnata una singola stanza (e talvolta anche meno), con l’uso comune di bagno e cucina. A partire dagli anni Venti, per portare avanti questo cambio di mentalità, furono ideati nuovi tipi di abitazione. Gli architetti sovietici più radicali proposero il completo annullamento della sfera privata, costruendo case-comuni dove ogni possesso, inclusi i vestiti e la biancheria, sarebbe stato condiviso. Gli architetti immaginavano un’utopia dove tutti vivessero in enormi caseggiati comunitari (p. 379).
Essi pensavano alla città come a un vasto laboratorio per organizzare il comportamento e la psiche delle masse: un ambiente totalmente controllato in cui gli impulsi egoistici degli individui potessero essere riplasmati razionalmente. Creare un nuovo tipo di essere umano era sempre stato un obiettivo dei bolscevichi. Come bolscevichi, credevano che la natura umana fosse il prodotto dello sviluppo storico e potesse quindi essere trasformata da un nuovo modo di vivere rivoluzionario. Trockij diventava lirico quando parlava della ‘reale possibilità scientifica’ di ricostruire l’uomo: “Produrre una nuova, perfezionata versione dell’uomo: ecco il compito del comunismo” (p. 380).
Non si era mai visto un orgoglio così smisurato agire, in nome della felicità, dell’uguaglianza e della fratellanza, in un modo tanto tragico e criminale, come nei bolscevichi.
(E mi dispiace dover estendere questo giudizio anche a Lev Trockij, grande scrittore e uomo impavido, che ha sostenuto le proprie idee a costo della vita).
Fine
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