sabato 5 febbraio 2011

Ceti medi riflessivi: bibliotecari e lettori. 22^ p. (dal libro inedito: Una Italia tascabile. Saggio sulla sagace piccolezza dei funzionari. 2001).


Quanto più si è intelligenti, tanto più accade di trovare degli uomini originali. La gente comune non trova alcuna differenza tra gli uomini.
  (Pascal, Pensieri, 7)


Il mio collega Lucio Fiorito è una persona riservata.
Non ha frequentato molte scuole, ma la narrativa e la poesia, la musica e la pittura sono le passioni della sua vita, che lui coltiva con letture continue, con visite a musei ed esposizioni, con concerti e spettacoli teatrali.
Sa tante cose, ma non è questo il suo pregio. Più che la cognizione, ha il sentimento delle cose che sa, e per questo è una persona serena e appagata, per quanto è possibile esserlo. In Biblioteca fa un lavoro modesto, lo fa con coscienza e ne è soddisfatto.
Mi colpisce che, nonostante la sua passione per l’arte, non senta il bisogno di scrivere o di esprimersi in qualche forma. Scrivere è, anzi, per lui un’impresa impossibile. Con modestia e sincerità confessa: “Non mi riesce”.
Vive solo ed è un uomo metodico. La regolarità delle occupazioni è la disciplina con cui ha modellato la propria vita e che fa di lui una persona tranquilla e gentile, disponibile, di parola.
Gli faccio visita quasi tutte le mattine e, se non è occupato, commentiamo qualche notizia di giornale o qualche libro. Lui, però, non fa mai visita a nessuno. E’ gentile ma non affabile. Qualche volta sembra che provi un moto di avversione per gli altri, a cui lui, però, non dà sfogo, se non con maniere più schive del solito. Qualche altra volta avverto nel suo parlare eccessivo un bisogno insoddisfatto di compagnia.
Tuttavia, pur essendo talora espansivo, non ammette nessuno nella intimità della propria vita privata.
Ritaglia dai giornali decine di articoli che raccoglie e ordina con pazienza e attenzione.
I suoi ragionamenti non sono sempre molto chiari; ha però una grande memoria e ricorda versi e frasi di una infinità di opere, che lui cita continuamente non per esibizionismo (non c’è persona meno esibizionista di lui), ma come formule magiche, che pronuncia con una certa enfatica ispirazione, per evocare, alla sua maniera, l’atmosfera di un libro.
“Lucio, volevo conoscere il tuo parere su questo problema. La mattina, mentre mi faccio la barba, ascolto Radio Maria. La mattina presto i programmi normali irritano i miei nervi. Invece Radio Maria è sempre uguale e noiosa come la Settimana enigmistica e mi tranquillizza. Tutti parlano dell’amore per Dio: Dio mio, quanto ti amo! Dio mio, fa’ che ti ami sempre più. Oggi addirittura ho sentito: amore infinito del mio Signore, incorporatevi con me. Ma non è assurdo? Anche se mi metto nei panni di un credente, non è puerile esaurire la propria religiosità in queste inutili invocazioni? Se Dio esiste, che se ne fa di tutte queste smancerie?”
“Dio corregge chi ama”, dice San Paolo. “E Nietzsche, profooondo Nietzsche: ‘anche Dio ha il suo inferno: è il suo amore per gli uomini’. I loro peccati sono la pena segreta di Dio, che essi debbono alleviare con il loro amore”.
“Ma, Lucio, come fa Dio ad avere una pena segreta? Come fa a soffrire per i nostri peccati? Non poteva farci semplicemente migliori?”
“Non è così, mio caro. ‘Sii peccatore e pecca da forte, ma con più forza confida in Cristo’. Lo ha scritto Lutero”.
“A me, Lucio, sembrano fanfaluche. Se Dio esiste, perché dovrei macerarmi nel dubbio di non amarlo abbastanza? Come se io mi torturassi per il dubbio di non amare abbastanza il sole o l’aria limpida. Io li desidero e li cerco in modo naturale e tranquillo, senza sofferenza, e mi sono indispensabili per vivere una buona vita sulla faccia di questa terra”.
“Questa tranquillità sa di indifferenza. ‘Il corpo è solo il tramite dell’amore’, è l’alto magistero di papa Wojtyla. Mi piaace taanto”.
“Il magistero di questo papa non mi sembra interessante, Lucio. E’ un papa prepotente e crudele che vorrebbe essere padrone anche dei nostri corpi".
Ma Lucio non polemizza. Con l'ultima formula magica ("Gli uomini sono la gloria di Dio") si alza dalla sedia e conclude la conversazione.
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Ho avuto per qualche anno un buon rapporto con un barbuto ometto vivace e bonariamente sarcastico, il professor Vaniglia, studioso di storia della filosofia. Era un onnivoro e simpatico genietto (di quelli che già a cinque anni conoscono le bandiere e le capitali di tutti i paesi del mondo e a otto le divise dei soldati delle guerre napoleoniche e tutti i francobolli del Togo e della Costa Rica). Nelle sue letture era spinto da una vasta curiosità, che però a me sembrava un po' frivola e superficiale. In qualche mio scritterello polemico che gli avevo fatto leggere, lui cercava soprattutto spunti di divertimento. Gli mancava la pazienza. Non aveva riflettuto su quella paginetta della 'Giovinezza' di Francesco De Sanctis, dove l’autore, parlando dei suoi primi anni di insegnamento e dello scrupolo con cui leggeva le composizioni dei discepoli, scrive: “Mettevo in quel lavoro un’infinita pazienza, perché infinita era la mia coscienza: mi sarebbe parso un delitto l’andare in fretta o leggere a salti”.
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Appena arrivato in Biblioteca, feci amicizia con un ragazzo che lavorava intrepidamente ad un nuovo commento dei carmi di Catullo. Letterio Cassata aveva solo ventitré anni, veniva dalla Sicilia e viveva in modo spartano con una piccola somma che gli mandava il padre. Comprava ogni settimana la rivista comunista Rinascita, di cui leggeva gli articoli più interessanti sottolineandoli a penna. Per un anno intero, finché non fece ritorno in Sicilia, fummo quasi inseparabili. Mangiavamo insieme, la sera, alla mensa universitaria e andavamo al cinema a vedere Bergman e Antonioni e il primo film con il giovane Sean Connery nei panni di James Bond.
Era un ragazzo molto dotato e sicuro delle proprie idee, incline a inquadrare ciascun problema nel suo ampio contesto, che lui era poi capace di continuare ad ampliare a dismisura con una troppo seria intenzione didascalica. Disprezzava le carriere ufficiali e, benché avesse un temperamento malinconico, non mancava di senso dell’umorismo. A volte rideva anche di qualche mia battuta, come quando gli sussurrai, di una giovane matrona che veleggiava lungo i corridoi della Biblioteca, che sembrava avere i denti di gesso.
L’estate successiva al nostro incontro, viaggiai tutta una notte per andarlo a trovare al suo paesone in provincia di Messina, dove passai alcuni giorni. Facemmo un paio di passeggiate in auto con un professore di liceo che era stato suo insegnante. Ad un certo punto della passeggiata ci fermavamo e loro due, rimanendo seduti in macchina, parlavano a lungo dei problemi del comunismo mondiale. Io, seduto dietro, ero come un semplice e ignaro chierichetto che ascolta la messa in latino.
Avevamo ancora una ingenuità da ragazzi. Una volta entrammo in un ristorante lungo la spiaggia di Milazzo e preavvisammo il proprietario: “Vorremmo mangiare, ma abbiamo solo questa somma”.
“Vedremo che cosa si può fare”, rispose l’oste sornione, e ci portò dei piatti il cui costo coincise, fino all’ultima lira, con la somma che avevamo detto di avere.
Quando Letterio tornò definitivamente in Sicilia, lo accompagnammo in corteo fino alla stazione, io ed altri amici della mensa universitaria, in una trasparente notte estiva del 1965.
Lo rividi fuggevolmente in Biblioteca alcuni anni dopo. Gli raccontai con un certo orgoglio che con altri tre colleghi avevo pubblicato alcuni numeri di un giornalino da combattimento. Ma lui, ortodosso assertore della iniziativa delle masse, arricciò il naso: “Cosa vuoi che siano quattro persone!”.
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Nel corso di tanti anni ho conosciuto un poco alcuni studiosi di grande dottrina e onestà, per i quali ho provato sempre un rispetto senza riserve. Ricorderò sempre Carlo Cordié e Sebastiano Timpanaro.
Erano persone semplici che parlavano senza toni didascalici né, tanto meno, oracolari. All’inizio, anzi, si poteva quasi rimanere delusi da loro. Ma la cultura vera non ha bisogno di mostrarsi: essa è una concentrata forza interiore che rende limpidi ed espressivi i gesti e le parole più comuni, come la profondità di un lago fa più intenso il colore delle sue acque.
Non ho mai visto Cordié e Timpanaro insieme, ma accostandoli mentalmente trovo che avrebbero formato una coppia fisicamente simile a Don Chisciotte e Sancio Panza.
Timpanaro, più giovane di una decina d'anni, era alto, magro, un po' curvo e dall'andatura un po' incerta. Gentile fin quasi ad essere cerimonioso, parlava con il vocione che hanno a volte le persone timide. Aveva un viso serio e composto, come asciugato da una sofferenza intima che arrivava a manifestarsi all’esterno in una forma placata e sublimata; aveva la fronte molto alta e gli occhi vivissimi e candidi. Credo di aver visto poche volte un viso così spirituale e ascetico.
Cordié era basso e corpulento, con occhi azzurri dall'espressione affettuosa. Specialmente dopo che era andato in pensione, attaccava interminabili discorsi con tutti gli impiegati della Biblioteca, ai quali raccontava i suoi infiniti ricordi di giovinezza, di vita militare e universitaria.
Tutti volevano bene e stimavano Cordié e stavano ad ascoltarlo a lungo per riguardo ed affetto. Lui conosceva di prima mano e padroneggiava con memoria prodigiosa la letteratura dei principali paesi europei e a ottant'anni passati, malato di cancro, trascorreva ancora giornate intere in Biblioteca per fare faticose ricerche: voleva scrivere un articolo per ricordare un amico defunto o per rendere omaggio a un antico maestro. Con spirito laico, aspettava la morte lavorando.
Timpanaro era una figura più complessa e aveva interessi più ampi. Scriveva di politica e di filosofia, di letteratura moderna e di antichità classica, ma in tutti i suoi scritti, anche in quelli più specialistici, le sue opinioni erano sostenute sempre con lo stesso fervore e con l'immediatezza di un pensatore appassionato e retto, con la chiarezza di uno scrittore leale e con la modestia di una persona che ha sofferto.
I suoi interventi polemici, densi e spesso gustosi, erano sempre cavallereschi e persino comprensivi nei confronti degli avversari.

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