sabato 29 gennaio 2011

Ceti medi riflessivi: bibliotecari e lettori. 1^ p. (dal libro inedito: Una Italia tascabile. Saggio sulla sagace piccolezza dei funzionari. 2001).



















 
 
 
 
La lettura e l’istruzione sono come l'acqua per una pianta: sviluppano le qualità del seme. Una rosa cresce e sboccia in un fiore splendido e delicato; un cardo diventa duro e spinoso. (Proverbio scandiccese)

La dottrina accompagnata co’ cervelli deboli o non gli megliora o gli guasta. (F. Guicciardini, Ricordi)

Fra gli impiegati acculturati che leggevano libri, "Il nome della rosa" ha tenuto banco per un decennio e Umberto Eco è tuttora considerato l'intellettuale per eccellenza: moderno, universale, democratico e spiritoso. - Ma infiniti sono i modi di leggere. Una non più giovane signorina, alta, composta, cerimoniosa e fredda, di quelle che, quando si voltano verso un interlocutore che rivolga loro la parola all’improvviso, prima lo guardano senza vederlo e solo un poco alla volta cominciano a distinguerlo, che quando stanno sedute su una sedia si appoggiano solo sul bordo, con le gambe unite e piegate ad angolo retto (accenna ad una di esse Virginia Woolf in un suo romanzo), e che parlano con una compitezza piena di congiuntivi, rinfrescava di tanto in tanto il suo latino leggendo una pagina di Tito Livio o di Cicerone nei vecchi testi scolastici che aveva conservato con cura scrupolosa dai tempi del liceo. Oppure ripassava periodicamente, in un suo dizionarietto di miti e leggende, la storia del nodo gordiano o quella di Giasone e del vello d'oro. Con lo stesso animo poetico, almeno una volta al mese, in un momento di pausa domenicale, si cimentava al pianoforte in brani classici appresi da ragazza. -
La più grande lettrice di romanzetti d'amore era una giovane donna laureata in letteratura francese. Aveva un fidanzato che morì per una improvvisa malattia e lei, un paio di settimane dopo il funerale, arrivò in Biblioteca con una busta piena di preservativi che regalò ad una collega, con la quale peraltro aveva rapporti molto superficiali. Non voleva che andassero sprecati. Negli anni delle lotte sociali non partecipò mai ad uno sciopero: o era malata o era in ferie o era perplessa per le modalità con cui lo sciopero era stato dichiarato o non ne condivideva gli obiettivi o pensava che lo sciopero fosse indetto per un altro giorno o non ne sapeva niente perché il giorno prima aveva lavorato di pomeriggio oppure era dovuta venire in ufficio suo malgrado, nonostante lo sciopero, per imprescindibili esigenze di servizio. Ragazza di chiesa e attiva nella vita parrocchiale, teneva corsi di catechismo. Le sue uniche letture erano i romanzetti d'amore della serie Harmony. - "Ho appena finito di leggere la Certosa di Parma", mi disse una volta una giovane collega, quando l'eco dei grandi scioperi per le riforme non si era ancora spenta. "Ma le storie d'amore non mi piacciono. Preferisco i romanzi sociali". Divertente e irreale era il suo modo di salutare lungo i corridoi della Biblioteca. Salutava sempre per prima, quando era ancora a venti metri di distanza, chiamandomi per nome a voce alta. Io mi sentivo lusingato e mi preparavo a uno scambio di cortesie; ma quando finalmente ci incrociavamo, lei mi rivolgeva appena una impercettibile alzata di sopracciglio o addirittura volgeva lo sguardo altrove. - “Hai letto questo libro?”, chiesi a una rispettabilissima e imponente collega anziana incontrata sull'autobus, mostrandole un romanzo di successo che stavo sfogliando. E lei, senza indugiare nemmeno un attimo per cercare di ricordare, mi rispose con sicurezza: "Lo devo aver letto senz'altro". - “Ieri sera stavo leggendo una rivista femminile”, raccontava una bibliotecaria prossima alla pensione, “La sera leggo quelle cretinate lì. Non leggo libri seri, se no mi appassiono, poi voglio andare fino in fondo e non dormo più”.  “Noi che abbiamo passato la vita sui libri..”, ripeteva spesso la stessa persona, per costituirsi un titolo di merito di fronte agli impiegati delle nuove generazioni. - Non molto tempo fa ho incontrato per strada il dottor Arturo Làlleri, che da molti anni era stato trasferito ad una biblioteca di un'altra città. Era un po' ingrassato ed aveva un folto barbone grigio, ma io, come forse succede sempre quando si rivede anziano un amico che si è conosciuto ragazzo, ritrovai subito in lui il giovane che era stato e mi sembrò addirittura che il barbone fosse finto. Lo canzonai un poco e poi gli chiesi un giudizio sulla nuova direttrice della sua biblioteca, di cui avevo sentito parlare. "La nuova direttrice”, rispose Làlleri, “sì, è brava, intelligente, giovane. Conosco bene il marito, uno storico che viene a studiare da noi. Però, intendiamoci, anche per lei bisogna dare una definizione ad quem: sembra che parliamo di massimi sistemi, ma in realtà si tratta di minima moralia". Divertito da questo modo di esprimersi, pensai che Arturo Làlleri non era cambiato affatto. - Ignazio Pedrotti è un uomo così mite e discreto che, lavorando in un ufficio aperto al pubblico, è riuscito a rendersi invisibile. Forse per caso o forse per una attenta valutazione di principi ottici e geometrici, Pedrotti è riuscito a installarsi, in una stanza che ha tre porte su tre pareti diverse, nell’unico angolo che rimane poco visibile da qualsiasi porta si entri. Cosicché, quando un lettore si affaccia nell’ufficio, se c’è soltanto Pedrotti, la stanza sembra vuota, e il lettore si ritira. Inoltre, con gli anni, Pedrotti si è perfezionato, assumendo l’immobilità e il colore dei mobili dell’ufficio, e se anche lo sguardo di un lettore cade incidentalmente su di lui, non lo riconosce, a prima vista, come un impiegato in servizio. Nonostante la sua mitezza e discrezione, Pedrotti non ascolta mai con interesse, o almeno con attenzione, le idee e le ragioni di un interlocutore. Alla prima occasione, si impadronisce di un qualsiasi discorso, volgendolo non solo verso la cultura libresca, ma soprattutto verso i libri letti da lui. La lettura sostituisce, per lui che ama stare seduto, i dubbi e le passioni dell’azione. Il suo modo di parlare, seppur fiacco, è sempre assertivo e didascalico. -
Salvatore Spagnuolo, frequentatore saltuario della Biblioteca, insegnante di scuola media, a cinquant'anni teneva l'elenco dei libri letti e lo aggiornava puntualmente, come se, per ogni libro aggiunto all'elenco, egli facesse, come un alpinista, un passetto in più verso l'alto. Siccome aveva pubblicato due o tre libretti di versi, una volta mi disse: "Ormai leggo solo poesia. Che vuoi, ci sono dentro". Un'altra volta, volendo esprimere un'opinione su un argomento d’attualità, fece questa premessa: "Io, come poeta, mi sento estraneo alla politica". A un amico, Gregorio Di Bari, anch'egli studioso cercatore di farfalle e autore di un libro di versi deliranti, scrisse: "Il tuo libro è una pietra miliare della letteratura italiana". Fino a quarant'anni, ogni tanto aveva trascorso un paio di settimane a Parigi, sentendosi come Modigliani o Picasso, ed aveva descritto tristi e insignificanti incontri, con l’idea che, solo perché erano avvenuti nei caffè di Parigi, avessero un valore artistico. “Qui in Italia, diceva, la vita è troppo piatta e non riesco a scrivere”. Sarebbe voluto tornare a Parigi per ritrovare la vena creativa, ma ormai aveva famiglia, problemi di soldi e di salute. Per ciascuno dei suoi libretti Spagnuolo organizzava una presentazione in un caffè del centro, celebre per la sua trascorsa fama di caffè letterario. Officiava ogni volta Jacopo Paganelli, divulgatore di cultura democratica e critico itinerante del più forte partito politico della città, prolifico scrittore di prefazioni e postfazioni e ricercato conferenziere su poeti e scuole poetiche degli ultimi due millenni. Le sue presentazioni erano lunghe e noiose. Non parlava mai dell'autore che doveva presentare, ma solo di altri poeti. "Salvatore Spagnuolo no, non risente di Dino Campana. Campana ha tutt'altra ispirazione". Oppure: "Nel terzo componimento della seconda parte, Salvatore Spagnuolo riecheggia Osvaldo Bevilacqua, il Bevilacqua degli ultimi versi". Una volta, dopo un'ora di questa solfa, Paganelli concluse, allargando le braccia: "Che altro posso aggiungere?". Dal pubblico venne una voce chiara di donna, per la quale provai subito simpatia, che rispose: “Niente!”. -
Qualche bibliotecario delle nuove generazioni ha compilato manuali sul restauro dei libri e su altre attività settoriali di biblioteca, senza averle mai praticate, semplicemente copiando da altri libri. Per studiosi così disinvolti sarebbe possibile scrivere una grammatica della lingua cinese senza conoscere il cinese. -
Gli scritterelli occasionali, anche di argomento non professionale, prodotti da un qualsiasi bibliotecario e tutta la recente letteratura biblioteconomica italiana, che dovrebbe essere una letteratura eminentemente di servizio e pertanto limpida e funzionale come le istruzioni che accompagnano una medicina, sono costruiti secondo la struttura, la sintassi, il lessico, l'apparato bibliografico, insomma con la massiccia prosopopea di un trattato accademico. Per un pensatore originale le citazioni sono solo un leggero e trasparente evidenziatore per dare maggior rilievo alle proprie idee. Gli scritterelli dei nostri biblioteconomi, invece, hanno corso sul mercato delle riviste, dei convegni, dell’università, dei concorsi ministeriali, ecc. solo se imbottiti di note fino al soffocamento. -
Ci sono lettori insinceri e frivoli che cercano nei libri sensazioni, immagini, parole, colori, che essi percepiscono in modo enfatico e superficiale. Il modello di questo tipo di lettore è Legrandin, l'ingegnere snob che appare nel primo volume di “Alla ricerca del tempo perduto”, il quale parla così al giovane Marcel: “C'è una deliziosa qualità di silenzio, non è vero? Ai cuori feriti come il mio, un romanziere che leggerete più avanti sostiene che convengano soltanto l'ombra e il silenzio. E in verità, ragazzo mio, viene nella vita un momento, dal quale voi siete ancora ben lontano, in cui gli occhi affaticati non sopportano più che una luce, quella che una bella notte come questa prepara e distilla con l'oscurità, e gli orecchi non possono più ascoltare altra musica che quella suonata dal chiaro di luna sul flauto del silenzio”.
Un imitatore di Legrandin mi sembra il filosofo comunista Mario Tronti, che in una intervista a Il Manifesto (intitolata, senza ironia, Il primato del pensiero) alla domanda “Tu come guardi al presente di questo occidente moderno?”, comincia con questa enfasi la sua lunghissima risposta: “Io dico due cose, e con questo mi attesto, se vuoi, su una posizione di trincea, apprestandomi a pensare come i soldati nelle memorie della grande guerra, che stavano giorni e settimane nel fondo delle trincee senza vedere il paesaggio intorno, e leggendo il tempo nelle albe e nei tramonti su in cielo. Due cose.” ecc. ecc. Quanto al succo della sua risposta, Tronti, dopo una lunga serie di immagini barocche e di “stupendi pensieri” altrui, formula questo concettino, che mi pare alquanto modesto: “Ecco, bisogna fare in modo che questa grande restaurazione capitalistica getti le vere grandi fondamenta di un ritorno di Kommunismus”. In una più recente intervista al quotidiano la Repubblica, a una domanda sul suo stato d’animo dopo la crisi del comunismo, risponde: “Ero abituato a vivermi [sic!] in un’appartenenza eretica nel partito comunista. Ma oggi non c’è più neanche questo”. Comunque “quando si chiuse la vicenda italiana del partito comunista, io dissi che dal punto di vista intellettuale sarei rimasto un comunista in qualunque partito mi fosse capitato di militare. Rivendico un’appartenenza anche un po’ orgogliosa: io sono quella roba lì”. Dopo queste impudiche esibizioni di sé, Tronti assicura che non scriverà mai un’autobiografia, perché “mi è rimasta addosso un’educazione comunista. Per cui, come singoli, si conta poco nella storia. Ma trovo questo ritegno anche una reazione al dilagante narcisismo borghese”. Sembra di sognare! -
Una ispettrice del Ministero dei beni culturali, donna piena di gioielli e di cognomi, inaugurò la vecchia Biblioteca Gambalunghiana di Rimini "a vita nuova restituita". Nel suo discorsetto, riportato su un giornaletto locale, si dichiarò certa che la nuova biblioteca sarebbe stata uno strumento importantissimo di cultura per la “già civilissima Rimini”. Quel "già" mi è sembrato un microscopico ma brillante esempio di cultura ministeriale: l'ispettrice fa un esame o un controllo di civiltà alla città di Rimini e alla sua storia. -
“Io penso che il bibliotecario debba essere nel proprio lavoro una persona modesta, cioè consapevole dei limiti di questo lavoro, che è importante ma modesto”, dissi una volta, insistendo sempre sulla mia idea fissa, al signore anziano che mi sedeva accanto, durante una cena di bibliotecari e impiegati. Era un uomo sui settant’anni, gentile e affabile, che parlava molto pacatamente. In passato era stato direttore di biblioteca. Con un sorriso bonario e inclinando leggermente la testa da un lato, come se gli dispiacesse contraddirmi, rispose: “Ma io debbo dirti che non sono tanto d’accordo”. “Ma io non voglio dire”, continuai, “che il bibliotecario deve essere anche un uomo modesto. Fuori del suo lavoro può coltivare gli studi più profondi e avere la massima ambizione. Voglio solo dire che il bibliotecario dovrebbe rendersi conto che il lavoro di biblioteca, in sé, è un lavoro ausiliare che serve agli studiosi veri. Del resto, vuoi mettere la preparazione di un bibliotecario con quella di un filologo classico o di uno storico dell'antichità?". “Ma vuói scherzare?” intervenne subito la signora seduta di fronte a me, che aveva seguito la conversazione. “Non c’é confronto fra quello che debbo sapere io, che dirigo una bibliotéca, e quello che deve sapere un professore universitario qualunque”. La signora, sui cinquant’anni, aveva ancora un bel viso di ragazza, parlava con tono educato e sommesso; era così gentile che non sapeva alzare la voce nemmeno quando era irritata. Pronunciava con l’accento acuto tutte le ‘e’ e le ‘o’ che avevano l'accento largo. “Io debbo conoscere la biblioteconomia, la bibliografia, l’informatica, la contabilità di stato, le normative dei rappórti coi sindacati e col personale, le disposizioni sugli appalti, il marketing... Ti sembra póco?”. “Non è poco, certo. Ma allora si può rispondere che uno storico dell’antichità deve conoscere la poesia greca, la metrica greca, la filosofia greca, l’arte greca, la storia greca, la geografia greca, qualcosa, forse, della civiltà romana e, almeno per sommi capi, un po’ del mondo moderno”. “D’accórdo: ma il suo campo non é pói così esteso. É solo l’antichità”. “Solo l’antichità? Già, solo l’antichità! ”. “Ed io l’antichità la conosco appena un póco meno béne di uno stórico di professione”. Chiusa la discussione sul mondo antico, chiesi a cosa servisse in una biblioteca la conoscenza del marketing. “Ma per creare e mantenere degli agganci con l’estérno! Óggi non é più sufficiénte svólgere i sóliti lavori di routine tipici di una bibliotéca; la sua attività non si puó più svólgere ed esaurire al próprio intérno. É indispensabile che la bibliotéca sappia anche valorizzare le próprie funzioni e ricavarne un vantaggio di immagine e un utile económico. Bisogna réndersi conto che la società sta cambiando”. Ma io conoscevo già questo discorso e cambiai argomento. -
Una collega, che ha fatto studi universitari, da vent’anni va dicendo che la propria anima è “in spurgo”. Non legge né libri né giornali, ma solo Sacre Scritture. Non sa nulla di nulla. Quando viene a conoscenza di un fatto che già tutti sanno, esprime una grande meraviglia e poi dice: “E già, io i giornali non li leggo mai”, con la stessa orgogliosa disinvoltura con cui uno potrebbe ammettere di non leggere mai le riviste di ippica o di caccia & pesca. - Da un telegramma di condoglianze di una direttrice di biblioteca. “Direttrice e personale tutto piangono perdita maestro guida amico e sue doti umane intellettive civili”. -
“La nuova Biblioteca nazionale di Parigi è troppo grande. Ne sono rimasta impressionata e atterrita. E' una costruzione incredibile, mi fa paura. Immagino per noi, invece, una costruzione a misura d'uomo che davvero dia respiro al terzo Millennio. Intendiamoci, immagino una biblioteca vera, umanoide, in cui vinca il fattore umano, e poi lo impone la stessa storia del nostro paese”. Dichiarazione ad un giornale di una direttrice di biblioteca prestata alla politica. -
Il poeta, saggista, pittore e conferenziere Gregorio Di Bari frequentava quasi giornalmente le sale di consultazione. Viveva modestamente di rare supplenze e vendendo qualche quadro. Benché le sue poesie mi sembrassero solo un guazzabuglio di parole forti, e la sua prosa lambiccata e arida non risvegliasse in me alcun pensiero, il suo modo di vivere mi pareva ispirato ad una idealistica spensieratezza e ad un disinteresse da uomo superiore che mi piacevano. Quando ci incontravamo, quasi ogni giorno, passeggiavamo a lungo per i corridoi della Biblioteca parlando dei nostri nobili sentimenti frustrati, delle nostre inappagate esigenze di verità e di giustizia e mettevamo sotto processo, con condanne subito definitive, tutti i personaggi pubblici viventi: politici, giornalisti e uomini di spettacolo. Un giorno mi chiese in prestito una somma di denaro che non mi restituì mai più. Seppi in seguito che faceva così con tutti i suoi amici e conoscenti. Si giustificava affermando che lui, in quanto artista, non si sentiva tenuto a rispettare le regole della gente mediocre. -
Mentre ci sono tanti modi sbagliati di leggere, ce n’è uno solo corretto: la lettura libera e disinteressata, che richiede limpidezza di cuore e interesse per la vita degli altri. Naturalmente questo modo di leggere ha tanti gradi di intensità e di qualità, secondo le doti dei lettori, ma comporta sempre una costante riflessione su se stessi. Già la semplice lettura di un romanzo, poiché implica una valutazione della consistenza umana dei personaggi e della qualità dello stile, impone un esame di coscienza a chi legge e giudica.
Soltanto la lettura libera induce il lettore a "pensare", spiega Augusto Monti nel suo appassionato libro “Scuola classica e vita moderna”. "Leggere un libro vuol dire: risolver questo libro in nostri concetti e tali concetti ricomporre quindi in una nostra unità, vuol dire disfare da noi il libro e rifarlo per noi, vuol dire "individuare" e "generalizzare", vuol dire "pensare". Chi legge così un libro, anche uno solo, non è l'uomo unius libri, ma è l'uomo omnium librorum: anzi, meglio, è l'uomo per cui ogni cosa è un "libro", cioè oggetto di meditazione e strumento di dottrina, norma di attività; libro è per lui il giornale, libro il collega, lo scolaro, quel signore che passa, la vita insomma in tutte le sue manifestazioni; esso è in definitiva un "uomo colto" anche se non è un letterato. Mentre per contro resterà sempre irrimediabilmente un uomo privo di "coltura", homo nullius libri, il dottorone divoratore di libri, compilatore di schede, ma afflitto dalla incurabile "tenia" della sua organica incultura, cioè della sua nativa inettitudine a individuare e a generalizzare".


(continua al post successivo)

Nessun commento: