sabato 11 gennaio 2025

Anton Čechov (1860-1904). I contadini. (Tutti i racconti, XI). Biblioteca universale Rizzoli, 1976

Fin da ragazzo ho amato i racconti di Čechov, ma rileggerli ora, da vecchio, mi dà un piacere completo che non avevo mai provato. A volte anche i grandi scrittori hanno frasi, periodi e anche intere pagine che si vorrebbero saltare o che si leggono per dovere, con minore attenzione. Con Čechov invece ogni parola è preziosa, utile e significativa; ogni parola, anche la più semplice e modesta, serve a costruire quel mondo così caratteristico, così corposo, così vero e, anche quando è triste e disperato, così poetico. L’attenzione con cui si leggono questi racconti non è l’attenzione dell’intelligenza che si sforza di capire, ma è l’attenzione del piacere che non vuole rinunciare nemmeno a una briciola di godimento estetico e di soddisfazione quasi fisica, prodotti dalle parole concrete che Čechov trova per i suoi personaggi, per ogni loro gesto, per la luce e gli odori dei paesaggi, per la descrizione di un abbigliamento o dell’arredo di una stanza. Il lettore è avido e attento a non lasciarsi sfuggire nessuno di questi particolari, così come molte signore, al bar, dopo aver bevuto il cappuccino, raschiano golosamente col cucchiaino ogni residuo di schiuma dal fondo della tazza. In una epoca come la nostra, in cui tutta l’arte è esagerata e c’è chi teorizza l’esagerazione nell’arte, la prosa di Čechov colpisce e dà gioia per la sua serena misura, verità, solidità, precisione; e, tuttavia, pur così leggera, è piena di luci e di ombre, come la vita, come il mondo reale. Il traduttore, Alfredo Polledro, morto nel 1961 a 76 anni, ha il grande merito di essere riuscito a ricreare con una lingua semplice e quasi quotidiana il mondo poetico di Čechov, ispirato da due grandi virtù: la franchezza e l’onestà. Nella sua prefazione il traduttore coglie con sensibilità l’attenzione dello scrittore per i sentimenti di ogni personaggio, definendola in modo espressivo “soave delicatezza dell’intimismo cechoviano”. L’ironia di Čechov non è mai feroce; ed egli, piuttosto che usare il sarcasmo, si serve dell’attacco diretto, esplicito e accorato. Nel racconto ‘La mia vita’, le tre figlie Azoghin, che organizzano in casa loro spettacoli filodrammatici e che non vengono mai chiamate da nessuno per nome, ma semplicemente la maggiore, la mediana e la minore, hanno brutti menti aguzzi, sono miopi e un po’ curve, sgradevolmente blese e vestono tutte come la madre; sono molto serie e non sorridono mai, e perfino quando cantano o suonano, lo fanno senza gaiezza, come si occupassero di contabilità. Povere ragazze Azoghin, fanno veramente pena! Questa è l’unica descrizione che potrebbe sembrare sarcastica, ma io, più che cattiveria, ci vedo uno scrupolo di verità con una sfumatura di amaro divertimento. Quando Čechov vuole esprimere avversione e sdegno, riporta i pensieri o i discorsi dei suoi personaggi in modo esplicito e diretto. Misail Poloznev, per esempio, il protagonista de ‘La mia vita’, ha col padre delle discussioni molto aspre: il figlio rimprovera al padre di essere un mediocre architetto che costruisce da trent’anni case tutte uguali, adeguate alla meschinità della città. “In tutta la città non c’è nemmeno un uomo onesto… Città di bottegai, di osti, d’impiegati, d’ipocriti, città superflua, inutile, che non un’anima rimpiangerebbe, se a un tratto sprofondasse sotto terra”. In questa città corrotta, soltanto le giovinette erano moralmente pure; avevano alte aspirazioni e anime limpide. Ma “dopo essersi sposate, invecchiavano in fretta, si lasciavano andare e affondavano senza speranza nella melma di una piatta esistenza borghese”. Questa è la stessa sorte che tocca a Vera Ivànovna, la giovane protagonista del racconto ‘Nel cantuccio natìo’. Torna fresca di studi e piena di ideali nella fattoria di famiglia in mezzo alla steppa, che all'inizio le ispira un inebriante sentimento di libertà. “Vera si abbandonò all’incanto della steppa, dimenticò il passato e pensò solamente quanto spazio ci fosse lì, quanta libertà; a lei, sana, intelligente, bella e giovane, era mancato fin allora nella vita appunto solo quello spazio, quella libertà”. Ma presto la monotonia, la meschinità dei suoi parenti, la sua stessa indolenza spengono le velleità di Vera. “Faceva venire libri e riviste e li leggeva nella propria stanza. Anche la notte leggeva, sdraiata in letto… Che cosa fare? Dove rifugiarsi?... Oh, come dev’esser nobile, santo, pittoresco servire il popolo, alleviare le sue pene, istruirlo! Ma lei, Vera, non conosce il popolo… Esso è per lei estraneo, privo d’interesse; ella non sopporta l’odore greve delle isbe, le parolacce delle bettole, i bambini non lavati, i discorsi delle donnette”. A poco a poco Vera Ivànovna si arrende alla mediocrità della vita quotidiana e sposa il dottor Nes’cianov, un buon partito locale. L’onestà e la franchezza di Čechov operano in questo modo nei suoi racconti: che i suoi personaggi vengono messi, in un certo senso, con le spalle al muro; la loro condizione psicologica e morale, che all’inizio è confusa e poco comprensibile per loro stessi, si sviluppa e si chiarisce, ed essi prendono o, almeno, si avvicinano a prendere coscienza di sé, anche se poi continuano a vivere come prima e a fare le medesime cose. Fra tanti personaggi umanamente incompiuti e a disagio nell’esistenza, è particolarmente cara al cuore dei lettori, nel racconto ‘I contadini’, la figura di Olga, moglie del cameriere Nikolài Cikildeiev. Costui, gravemente malato, torna da Mosca nel paese natìo con la moglie e la figlia Sascia. L’isba dei genitori, magri, curvi e sdentati, era la più povera e la più vecchia. Nikolài, “quando vide con quale avidità il vecchio e le donne mangiavano il pane nero, inzuppandolo nell’acqua, capì che invano egli era venuto lì, malato, senza denaro e per di più con la famiglia”. Sul pane e sulle stoviglie andavano e venivano gli scarafaggi, era ripugnante bere, e anche la conversazione era ripugnante. Ma Olga, che ha un’anima religiosa e uno spirito puro, appena arrivata in paese, guardandosi intorno, dice, segnandosi in direzione della chiesa: “Com’è bello qui da voi! Che vastità, Signore!”. Essa sa consolare la cognata Mària, continuamente picchiata dal marito ubriacone e così infelice da desiderare la morte, legge il Vangelo a voce alta e prèdica la bontà verso tutti: contadini, tedeschi, zingari, ebrei, e anche verso gli animali. Quando parlava di queste cose sacre, “il viso le si faceva compassionevole, commosso e radioso”. Olga era talmente immersa in una dimensione spirituale, che quando andava in pellegrinaggio, “si dimenticava affatto della famiglia, e solo quando ritornava a casa, faceva a un tratto la gioiosa scoperta che aveva un marito e una figlia, e allora diceva, sorridente e raggiante: Dio mi ha mandato una grazia!”. La visione che Čechov ha della realtà non è di un pessimismo assoluto. La purezza d’animo e, in generale, la ricerca del significato della propria vita rendono il mondo sopportabile e la propria esistenza utile, anche se, da sole, non bastano a eliminare concretamente la miseria e a liberare la massa dei contadini dalla schiavitù del lavoro fisico. Čechov, questo, non lo ignora, e ne parla diffusamente nei suoi racconti.

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