lunedì 10 febbraio 2025
lunedì 3 febbraio 2025
Leonid Andreev (1871-1919). L'abisso e altri racconti. Biblioteca universale Rizzoli, 1989
Il racconto più importante di questa raccolta è il
primo, ‘I sette impiccati’, scritto nel 1908, in epoca ancora zarista, pochi
anni prima della Rivoluzione bolscevica. E’ un racconto piuttosto astratto, uno
studio della psicologia di sette persone (cinque giovani terroristi e due
criminali comuni) condannate a morte e in attesa dell’esecuzione. I motivi
ideali che hanno spinto i cinque terroristi a commettere attentati non sono chiariti:
i tre ragazzi e le due ragazze sono presentati staccati dal loro ambiente
sociale, con una personalità già formata, di cui non si conosce bene l'origine.
Sono più comprensibili, invece, i
delitti dei due criminali comuni, la cui misera storia è raccontata con una
certa abbondanza di particolari. Giovanna Spendel, nella sua prefazione, scrive
che l’elemento socio-politico del racconto rappresenta solo una cornice, un
pretesto di cui si serve l’autore per analizzare la condizione di ciascuno dei
sette condannati. L’attesa della morte imminente ha l’effetto di un lievito,
che sviluppa in essi sentimenti umanissimi, oppure di un solvente, che fa
regredire alcuni di loro ad uno stato di infantile paura. In questo lungo
studio psicologico, la realtà materiale, il mondo esterno, la Russia del tempo,
anche se solo sullo sfondo, sono ben presenti. Di giorno, il frastuono della
città, il gaio tintinnìo dei sonagli al collo dei cavallucci, lo scampanellìo
dei tram e le trombe delle automobili soffocavano i rintocchi dell’antico
orologio sul campanile della fortezza-prigione. Di notte, invece, la melodia
triste dei rintocchi si diffondeva lentamente nell’aria come il grido lontano e
lamentoso degli uccelli migratori. I genitori di Sergej Golovin vanno a vedere
il figlio per l’ultima volta. “Così procedevano in silenzio, curvi, canuti
entrambi e vecchi, perduti nei loro pensieri, mentre la città era in festa; era
carnevale e per le strade c’era allegria e chiasso”. Anche mentre i sette
condannati sono portati al luogo dell’esecuzione, viene descritto il paesaggio intorno a loro: “la bellissima, pura notte primaverile odorava di
neve che si scioglieva, di spazio sconfinato, ed era tutta uno sgocciolio
sonoro”. Ma il mondo esterno, che pure è presente, non è avvertibile per
tutti. Per Vasilij Kaširin, il ragazzo più spaventato dall’imminenza della
morte, il mondo ha cessato di esistere: si sentiva “isolato al punto che gli
sembrava di essere il solo essere vivente in tutto l’universo […] Fin dal primo
giorno di carcere gli uomini e la vita erano divenuti per lui un mondo orribile
di fantasmi e di pupazzi”. Persino quando era venuta in visita la mamma per
l’ultimo saluto, Vasilij “aveva provato la sensazione ben chiara che quella
vecchia avvolta in uno scialletto nero non fosse che un fantoccio meccanico”. La
vecchia Russia è presente anche nel modo di parlare del brigante Miška
Cygarnok, il più barbaro dei due criminali condannati a morte, spavaldo,
insolente e sprezzante. “Noialtri di Orël siamo tutti scavezzacolli” diceva,
calmo e posato. Ma poi anche lui cede alla paura e si mette a urlare, pieno di
terrore e di dolore: ‘Amici carissimi… amici carissimi… abbiate pietà… Amici
carissimi!’. Le sue urla sono così strazianti, che il soldato di guardia,
bianco come il gesso, piangendo per l’angoscia e per il terrore, minaccia
esasperato di sparargli. Ma le guardie non sparavano mai contro i condannati a
morte, anzi nel racconto di Andreev esse sono modeste e gentili, quasi
compassionevoli. E anche questo è un ulteriore frammento di vecchia Russia.
Anche l’altro criminale comune, il contadino estone Ivan Janson, è un personaggio
ricorrente nella letteratura ottocentesca. Parlava malissimo il russo e non apriva
quasi mai bocca. Il padrone lo batteva. La cuoca, che lui aveva provato a
corteggiare, lo respinge. “Era basso di statura, mingherlino, aveva il viso
floscio, seminato di efelidi e i suoi occhietti assonnati apparivano color
bottiglia sporca”. Un giorno le sue frustrazioni represse esplodono: ammazza il
padrone a coltellate e tenta di stuprare la padrona. In carcere, dominato dal
pensiero della morte, finisce di abbrutirsi. “Non pensava a nulla, non contava
neppure le ore; stava soltanto in un terrore muto […] come gli animali da
macello dopo che li hanno intontiti con una martellata in fronte”. I cinque
terroristi politici sono di un’altra pasta. Vasilij Kaširin, dopo essere stato
dominato da una paura paralizzante, alla fine trova il coraggio di affrontare
la morte a viso aperto. La personalità degli altri quattro si evolve e arriva
ad altezze di sublime umanità. Musja era giovanissima, ma la sua austerità e il
nero profondo degli occhi dallo sguardo diritto e orgoglioso la facevano
sembrare più anziana. Era molto pallida, non di un pallore mortale ma di un
biancore luminoso; pareva che dentro le ardesse una grande fiamma e il corpo
prendesse la trasparenza di una porcellana di Sèvres. In carcere Musja era
felice. Camminava rosea ed eccitata, perché le sembrava una incredibile fortuna
che una creatura giovane e insignificante come lei avesse la stessa morte
splendida e gloriosa toccata agli eroi e ai martiri. Lei aveva fatto così poco:
non era certo un’eroina. Musja pensava: “Possibile che questa sia la morte? Oh,
Dio, quanto è bella”. La sua fede nella bontà umana, nella pietà e nell’amore
era incrollabile. Aveva uno sconfinato ardore di sacrificio e di eroismo, una
assoluta indifferenza verso se stessa. L’altro terrorista che vale la pena
conoscere da vicino è Verner (gli altri due, Sergej Golovin e Tanja Koval’čuk,
non sono molto diversi). Verner era di bassa statura, con lineamenti fini e
aristocratici. Dava l’impressione di una immensa e calma forza, di una fermezza
invincibile, di un gelido e insolente coraggio. Prima della condanna a morte,
aveva maturato, senza che i compagni lo notassero, un profondo disprezzo per
gli uomini. Dopo la condanna, sente pietà per i compagni, soprattutto per
Vasilij Kaširin, ma una pietà fredda, quasi ufficiale, come quella che forse
provavano gli stessi giudici. La permanenza in carcere, però, lo trasforma. Non prova alcuna paura, e nella sua anima nasce il sentimento di una vaga ma ardita e
immensa gioia. “Perché mi sento così leggero, gioioso e libero?”. E la vita gli
apparve nuova; mai prima si era sentito così libero e forte come in prigione, a
qualche ora dalla morte. E gli uomini si presentavano ai suoi occhi pieni di luce sotto un aspetto
nuovo, cari e attraenti in un modo nuovo. Nella carrozza che li porta di notte
al patibolo, Verner capita accanto a Janson. Gli chiede il motivo della sua
condanna. “Tagliato mio padrone con coltello. Rubato soldi”. Il contadino aveva
una voce strascicata come se stesse per addormentarsi. Verner trovò nel buio la
sua mano abbandonata e gliela strinse. La prosa di Andreev, quasi tutta
introspettiva, è incalzante e veloce. Il fatto che i cinque giovani terroristi,
a differenza dei due criminali comuni, arrivino al giorno dell’esecuzione con
tanto coraggio e tanta dignità, potrebbe dimostrare che le motivazioni
politiche che li ispiravano hanno avuto una influenza positiva sulla loro
coscienza e sul loro carattere. Ma Andreev ignora quelle motivazioni ed esse sono
assenti dal racconto. La sublimazione che avviene nei loro sentimenti è commovente
ed esemplare, però è un
percorso senza storia e senza giustificazione. In ‘La morte di Ivan Iljìc’ di
Tolstoj, il superamento della paura e del dolore e la conquista della libertà
interiore avvengono in un modo realistico e credibile; qui, invece, appaiono come
un miracoloso dono del cielo.
lunedì 27 gennaio 2025
Roberto Iannuzzi. Il 7 ottobre tra verità e propaganda. L'attacco di Hamas e i punti oscuri della narrazione israeliana. Fazi, 2024
Gaza è una striscia di terra lunga 41 e larga da 6 a 12
chilometri. Prima del 7 ottobre 2023 vi erano rinchiusi due milioni e
trecentomila palestinesi (quasi la metà dei quali con meno di 18 anni),
impossibilitati a uscirne a causa di un blocco terrestre, aereo e navale in
atto dal 2007. La recinzione terrestre è alta 6 metri ed è dotata di
apparecchiature elettroniche sofisticatissime (robot, droni, ecc.) e di
mitragliatori automatizzati, capaci di sparare senza intervento umano. Alla
recinzione di superficie è stato aggiunto, alla fine del 2021, un muro
sotterraneo, che affonda per decine di metri nel sottosuolo, dotato di sensori
per scongiurare la minaccia dei tunnel. Anche in mare c’è una barriera con
strumentazione di monitoraggio. Roberto Iannuzzi ricostruisce i fatti del 7 ottobre
e, grazie alla ricca documentazione della stampa internazionale, chiarisce
molti dubbi che erano sorti al momento dell’attacco: il servizio segreto
israeliano, probabilmente il migliore al mondo, non poteva non sapere
dell’imminente attacco di Hamas, in preparazione già da molti mesi; le autorità
israeliane avevano snobbato avvertimenti provenienti da vari governi alleati e persino
da alcuni soldati del proprio esercito; il raduno musicale a poca distanza da
Gaza, a cui avrebbero partecipato migliaia di giovani, era stato pervicacemente
confermato, nonostante le perplessità di alcuni ufficiali; tutto il sistema di
allarme intorno a Gaza non aveva funzionato. La richiesta di una commissione
d’indagine su ritardi, negligenze e omissioni da parte delle autorità è stata ignorata e rimandata alla fine del conflitto (praticamente sine die). La
conclusione politica è quasi obbligata: Israele non ha impedito l’attacco di
Hamas perché voleva avere un pretesto per sgomberare manu militari la striscia
di Gaza dai suoi abitanti. Molti politici hanno espresso la volontà di “radere al
suolo”, “cancellare”, “distruggere” Gaza. Il ministro della difesa Yoav Gallant
ha affermato che “stiamo combattendo animali in forma umana e agiremo di
conseguenza”. L’ex ambasciatore di Israele all’ONU, Dan Gillerman, ha
dichiarato di essere “sconcertato dalla costante preoccupazione” che il mondo
mostra per i palestinesi, da lui definiti invece “animali orribili e disumani”.
Apprezzamenti del genere sono numerosi non solo fra politici, giornalisti e
personaggi pubblici di ogni genere, ma anche nelle canzoncine che si fanno
cantare nelle scuole israeliane alle bambine. L’ex generale Giora Eiland ha
scritto: “Non facciamoci intimidire dal mondo”, e ha sostenuto che l’intera
popolazione di Gaza è un obiettivo militare legittimo, perché ha
entusiasticamente appoggiato Hamas e celebrato le atrocità del 7 ottobre.
Roberto Iannuzzi non nega le atrocità di
Hamas, ma cita testimonianze che
dimostrano la falsità delle accuse mosse ai palestinesi dalla propaganda
sionista e occidentale, e cioè che molti bambini sarebbero stati decapitati,
donne incinte sventrate, che sarebbero stati effettuati stupri di massa. La reazione militare israeliana,
in meno di 7 settimane, ha provocato distruzioni paragonabili a quelle causate
da anni di bombardamenti a tappeto delle città tedesche durante la seconda
guerra mondiale. Inoltre, col blocco dei generi alimentari, “Israele usa la
fame come arma di guerra”. Negli ospedali, per la mancanza di forniture
mediche, si fanno operazioni chirurgiche senza anestesia. L’attacco di Hamas, scrive
Iannuzzi, è stato una risposta alle crescenti violenze israeliane, al
pluriennale assedio di Gaza, alla distruzione delle case dei palestinesi, al
furto delle loro terre, al fatto che anche in Cisgiordania tre milioni di
palestinesi non hanno alcuna libertà di movimento, costretti a vivere in 167 enclave separate fra loro. Hamas è stato favorito e finanziato dai
governi israeliani, perché l’ascesa di questo gruppo intransigente
(“riconosceremo lo Stato ebraico solo quando esso riconoscerà i diritti dei
palestinesi”) avrebbe giustificato il rifiuto di permettere la creazione di uno
Stato palestinese. Lo stesso Netanyahu ha dichiarato nel marzo 2019 che
“chiunque voglia ostacolare la creazione di uno Stato palestinese deve
appoggiare il rafforzamento di Hamas e il trasferimento di denaro a Hamas”,
aggiungendo che “ciò fa parte della nostra strategia, isolare i palestinesi di
Gaza dai palestinesi in Cisgiordania”. In tutti questi decenni, il ruolo degli
Stati Uniti nel favorire l’espansionismo di Israele è stato fondamentale. Il
generale israeliano in congedo Yitzhak Brick ha dichiarato: “Tutti i nostri
missili, le munizioni, le bombe guidate, tutti gli aerei […] tutto viene dagli
USA […] Chiunque comprende che non possiamo combattere questa guerra senza gli
Stati Uniti”. I bombardamenti israeliani su Gaza, con il fondamentale appoggio
militare, politico e finanziario degli USA, hanno sconvolto il mondo. E' da decenni che la
politica estera degli Stati Uniti minaccia il mondo. Per non tornare
troppo indietro nel tempo, basta risalire a quando Victoria Nuland si aggirava
per piazza Maidan portando generi di conforto ai manifestanti e invitandoli a
lottare contro il governo legittimo per “la libertà che meritate”. Quelle sì
erano azioni e frasi abiette, egregio professore Raffaele Simone. Lei, raffinato uomo di cultura, scrive quasi
giornalmente commenti molto eccitati su Facebook contro il nuovo presidente americano,
definendo abietti i suoi decreti. Pochi giorni fa, Lei ha scritto: “AUSCHWITZ, NON SOLO... può ritornare, ma in
realtà non ha mai chiuso i battenti. Senza contare le infinite deportazioni e
massacri etnici del mondo attuale (uiguri in Cina, rohingya in Myanmar, etnie
diverse in Sudan, Congo e Repubblica centroafricana, palestinesi a Gaza e
altrove), un nuovo nazismo si è scatenato negli USA, e siamo appena agli inizi”.
Il suo commento, professore, è volutamente confuso e generico per eludere il
problema di nominare i responsabili. Lei cita una serie di massacri in paesi molto
lontani l’uno dall’altro e li mette tutti sullo stesso piano, grandi, piccoli e
medi, compreso lo sterminio della popolazione di Gaza, bombardata, sotto gli
occhi di tutto il mondo, da ben sedici mesi per volontà di politici che vanno
chiamati per nome e che operano in America e in Israele da molto tempo, ben
prima dell’era Trump. Forse Trump ha inaugurato, come Lei dice, un nuovo
nazismo, che però è ancora in fasce; invece il nazismo americano prima di Trump (un
dettaglio: dopo la guerra centinaia e centinaia di scienziati nazisti furono reclutati
dal governo USA e messi in posizioni di comando) ha fatto milioni di
morti. Lei scopre ora, dopo l’elezione di Trump, le infamie di cui si sono
sporcati gli Stati Uniti nel corso di molti e molti decenni, ma questa sua scoperta
è troppo improvvisa (nel suo libro “Il paese del pressappoco” Lei esprimeva considerazione e rispetto per gli USA) per essere ritenuta sincera e convinta. Purtroppo
quasi nessuno ricorda più i fatti; si apprezzano solo le parole (per questo
Obama ha avuto il Nobel per la pace appena eletto). Oggi in Italia tutti i
partiti sono uniti nel difendere i famosi valori della democrazia occidentale, esportabile in tutto il mondo. Scandalosamente, li difende anche la Sinistra, che, a quanto
pare, ha seguito il consiglio che Lei le aveva dato nel suo
libro ‘Il mostro mite’: "Cosa ci sia propriamente 'di sinistra'
nella causa palestinese e in che senso la sinistra si senta obbligata a
investire politicamente su di essa, è rimasto misterioso a molti (tra i quali
l'autore di questo libro)". Amen.
martedì 21 gennaio 2025
Ivan Turgenev (1818-1883). Rudin. Biblioteca universale Rizzoli, 1964
Dmìtri Nikolàievic’ Rudin è un uomo di trentacinque anni, di pochi mezzi
ma di grande cultura, alto, affascinante ed eloquente. Ospite per una sera
nella casa di campagna della ricca proprietaria Daria Michàilovna Lasùnskaia,
la sua figura, la sua dialettica e il tono appassionato delle sue parole
conquistano la padrona di casa, che in campagna si annoia e aspira a
conversazioni di qualità superiore, e lasciano sbalorditi gli altri ospiti.
“Dalla prontezza con cui tutti tacevano appena Rudin apriva bocca, si poteva
giudicare della forza dell’impressione da lui prodotta”. Invitato e protetto
dalla Lasùnskaia, Rudin rimane suo ospite per alcuni mesi. “Egli parlava in una
maniera magistrale, trascinando […] Tutti i pensieri di Rudin sembravano
rivolti all’avvenire, e questo conferiva ad essi qualcosa di impetuoso e di
giovane […] Rudin parlava di ciò che conferiva un significato eterno alla
temporanea vita dell’uomo”. Natàlja, figlia diciottenne
della proprietaria, che conosce a memoria tutto Puskin, è molto impressionata
da questi discorsi. Rudin, parlando con lei, dice: “Sì, io devo agire. Non devo
nascondere le mie capacità, se le ho; non devo sprecare le mie forze nelle sole
chiacchiere, nelle vuote, inutili chiacchiere”. Le sue parole, scrive Turgenev,
scorrevano come un fiume. Parlava meravigliosamente, con ardore, con
convinzione, del disonore di essere pusillanimi e pigri, della necessità di
agire. Una ragazza sensibile e riflessiva come Natàlja non poteva non innamorarsi di lui, e anche
Rudin, esagerando enfaticamente le proprie emozioni, le dice di amarla. Ma la
mamma aspira, per la figlia, a un
partito ricco ed è pronta a dare il benservito all’ospite affascinante
ma spiantato. L’appassionata Natàlja, ferita dalla grettezza materna, è disposta a rompere con la famiglia e a partire con Rudin, ma lui, per mancanza di coraggio e per tiepidezza di
sentimento, respinge lo slancio della ragazza e lascia la casa per riprendere
il suo vagabondaggio fra protettori e
amici d’occasione. Questo è il punto culminante di una storia molto semplice
che, dopo aver presentato l’intellettuale progressista russo della metà del XIX
secolo, pieno di idealità e di progetti di rinnovamento, ne smaschera
l’inconsistenza e l’inettitudine. Il romanzo è acuto e si legge con grande piacere per la sua arguzia e delicatezza; però lo sviluppo psicologico dei
personaggi principali non è del tutto naturale. Per esempio, la determinazione,
la chiarezza di idee e la tempra morale rivelate da Natàlja nell’ultimo
colloquio con l’innamorato sono troppo improvvise e sembrano una
sovrapposizione dell’autore. Anche la coerenza artistica dell’intero racconto
mi sembra incrinata. La partenza di Rudin segna la conclusione del racconto;
gli avvenimenti successivi, narrati nella
breve seconda parte, hanno il sapore di una aggiunta artificiosa e di una
correzione della storia. Nella prima
parte, Michailo Lezniòv, un vicino di casa che frequenta il salotto della
Lasùnskaia, riconosce in Rudin un amico di gioventù. Per tutto il tempo che il
fascinoso intellettuale era stato nelle grazie della ricca signora, Lezniòv (che
certamente guarda le cose con l’occhio di Turgenev) con tranquilla perspicacia ne aveva
rivelato le debolezze e i difetti agli amici più intimi. “Confermo che Rudin
realmente non mi piace […] E’ un uomo straordinariamente intelligente, sebbene
in fondo vuoto […] Un despota nell’anima, pigro, poco competente […] Gli piace
vivere a spese altrui, rappresentare una parte… ma il brutto è che è freddo
come il ghiaccio , […] e lo sa e si finge ardente […] Il male è ch’egli non è
onesto […] Alla sua età è vergognoso divertirsi al suono dei propri discorsi”. Addirittura
Lezniòv afferma che Rudin, a differenza di Tartufo, non sa nemmeno quello che vuole. Passano appena due anni dagli avvenimenti narrati, e Michailo
Lezniòv, parlando con le stesse persone, cambia completamente il suo giudizio
su Rudin: “Non si infierisce su chi è caduto […] Io voglio parlare di ciò che
vi è in lui di buono, di raro. In lui c’è l’entusiasmo, la qualità più preziosa
ai nostri tempi […] Non è un attore, non è un briccone, né uno scroccone, egli
vive a spese altrui come un bambino […] Chi ha il diritto di dire che le sue
parole non abbiano gettato tanta buona semenza nelle giovani anime capaci di
azione più di lui?...”. Passano ancora alcuni anni, e in un albergo di una
lontana città Lezniòv incontra per caso Rudin, invecchiato e stanco. Pranzano
insieme. Rudin ammette i suoi errori e le sue debolezze. Lezniòv è pieno
d’affetto. “Io suscito la tua compassione” dice con voce sorda Rudin. “No, ti
sbagli. Tu m’ispiri rispetto […] In te brucia la fiamma dell’amore della verità
[…] Tu hai fatto ciò che hai potuto, hai lottato finché hai potuto…”. E’ una
scena, questa, abbastanza commovente, che però dissolve la personalità di Rudin
come era stata descritta nella prima parte. Turgenev qui diventa indulgente,
più o meno come quel vecchio padre che, in un racconto di Čechov, scrive al
figlio una lettera piena di solenni rimproveri e poi, alla fine, gli
racconta che la vacca ha partorito un bellissimo vitellino e altri lieti e meno lieti fatterelli di famiglia e di villaggio.
martedì 14 gennaio 2025
Il professor Alessandro Barbero sembra un maestrino uscito dal libro Cuore
Il professor Alessandro Barbero esalta il ruolo antifascista dell’Anpi e
difende il suo diritto a ricevere finanziamenti pubblici. Vorrei portare a
conoscenza del professore questo episodio. Giusto un anno fa, la sezione Anpi
di Bagno a Ripoli, Firenze, organizzò una manifestazione per ricordare l’Olocausto
e per condannare il genocidio di Gaza. Apriti cielo! Sia l’Anpi provinciale che
quella nazionale sconfessarono l’iniziativa (“va contro la nostra storia”),
tutti i partiti furono contro, il Circolo dell’Antella negò i locali. La
manifestazione si tenne in forma quasi clandestina in uno scalcinatissimo
centro sociale. Se l’Anpi, come dice Barbero, pullula di giovani pieni di
fervore antifascista, devono essere dei giovani babbei. Infatti alla
manifestazione pro Palestina avevamo tutti i capelli bianchi. Ma al di là del
valore di questo episodio, bisogna dire che associazioni come l’Anpi, come i
sindacati, come i partiti, se prendono soldi o vantaggi pubblici, perdono l’anima,
diventano burocrazie obbedienti. Lo possiamo constatare tutti i giorni. Il mio ragionamento, così ovvio, prescinde dall’intenzione della Destra di privare l’Anpi dei soldi
pubblici. Barbero, maestrino che sembra uscito dal libro
Cuore, non si è accorto che destra e sinistra sono diventati uguali e che le
loro sono liti condominiali. Il fascismo esiste ed esisterà sempre, ma non è
più il fascismo di Mussolini: è l'eterna e implacabile prepotenza del più forte. Purtroppo è l’antifascismo
che non esiste più. Chi ignora o sostiene la prepotenza del più forte, come può essere antifascista? Il suo grido di battaglia è solo una vuota tiritera.
sabato 11 gennaio 2025
Anton Čechov (1860-1904). I contadini. (Tutti i racconti, XI). Biblioteca universale Rizzoli, 1976
Fin da ragazzo ho amato i racconti di Čechov, ma rileggerli ora, da vecchio, mi dà un piacere completo che non avevo mai provato. A volte anche i grandi scrittori hanno frasi, periodi e anche intere pagine che si vorrebbero saltare o che si leggono per dovere, con minore attenzione. Con Čechov invece ogni parola è preziosa, utile e significativa; ogni parola, anche la più semplice e modesta, serve a costruire quel mondo così caratteristico, così corposo, così vero e, anche quando è triste e disperato, così poetico. L’attenzione con cui si leggono questi racconti non è l’attenzione dell’intelligenza che si sforza di capire, ma è l’attenzione del piacere che non vuole rinunciare nemmeno a una briciola di godimento estetico e di soddisfazione quasi fisica, prodotti dalle parole concrete che Čechov trova per i suoi personaggi, per ogni loro gesto, per la luce e gli odori dei paesaggi, per la descrizione di un abbigliamento o dell’arredo di una stanza. Il lettore è avido e attento a non lasciarsi sfuggire nessuno di questi particolari, così come molte signore, al bar, dopo aver bevuto il cappuccino, raschiano golosamente col cucchiaino ogni residuo di schiuma dal fondo della tazza. In una epoca come la nostra, in cui tutta l’arte è esagerata e c’è chi teorizza l’esagerazione nell’arte, la prosa di Čechov colpisce e dà gioia per la sua serena misura, verità, solidità, precisione; e, tuttavia, pur così leggera, è piena di luci e di ombre, come la vita, come il mondo reale. Il traduttore, Alfredo Polledro, morto nel 1961 a 76 anni, ha il grande merito di essere riuscito a ricreare con una lingua semplice e quasi quotidiana il mondo poetico di Čechov, ispirato da due grandi virtù: la franchezza e l’onestà. Nella sua prefazione il traduttore coglie con sensibilità l’attenzione dello scrittore per i sentimenti di ogni personaggio, definendola in modo espressivo “soave delicatezza dell’intimismo cechoviano”. L’ironia di Čechov non è mai feroce; ed egli, piuttosto che usare il sarcasmo, si serve dell’attacco diretto, esplicito e accorato. Nel racconto ‘La mia vita’, le tre figlie Azoghin, che organizzano in casa loro spettacoli filodrammatici e che non vengono mai chiamate da nessuno per nome, ma semplicemente la maggiore, la mediana e la minore, hanno brutti menti aguzzi, sono miopi e un po’ curve, sgradevolmente blese e vestono tutte come la madre; sono molto serie e non sorridono mai, e perfino quando cantano o suonano, lo fanno senza gaiezza, come si occupassero di contabilità. Povere ragazze Azoghin, fanno veramente pena! Questa è l’unica descrizione che potrebbe sembrare sarcastica, ma io, più che cattiveria, ci vedo uno scrupolo di verità con una sfumatura di amaro divertimento. Quando Čechov vuole esprimere avversione e sdegno, riporta i pensieri o i discorsi dei suoi personaggi in modo esplicito e diretto. Misail Poloznev, per esempio, il protagonista de ‘La mia vita’, ha col padre delle discussioni molto aspre: il figlio rimprovera al padre di essere un mediocre architetto che costruisce da trent’anni case tutte uguali, adeguate alla meschinità della città. “In tutta la città non c’è nemmeno un uomo onesto… Città di bottegai, di osti, d’impiegati, d’ipocriti, città superflua, inutile, che non un’anima rimpiangerebbe, se a un tratto sprofondasse sotto terra”. In questa città corrotta, soltanto le giovinette erano moralmente pure; avevano alte aspirazioni e anime limpide. Ma “dopo essersi sposate, invecchiavano in fretta, si lasciavano andare e affondavano senza speranza nella melma di una piatta esistenza borghese”. Questa è la stessa sorte che tocca a Vera Ivànovna, la giovane protagonista del racconto ‘Nel cantuccio natìo’. Torna fresca di studi e piena di ideali nella fattoria di famiglia in mezzo alla steppa, che all'inizio le ispira un inebriante sentimento di libertà. “Vera si abbandonò all’incanto della steppa, dimenticò il passato e pensò solamente quanto spazio ci fosse lì, quanta libertà; a lei, sana, intelligente, bella e giovane, era mancato fin allora nella vita appunto solo quello spazio, quella libertà”. Ma presto la monotonia, la meschinità dei suoi parenti, la sua stessa indolenza spengono le velleità di Vera. “Faceva venire libri e riviste e li leggeva nella propria stanza. Anche la notte leggeva, sdraiata in letto… Che cosa fare? Dove rifugiarsi?... Oh, come dev’esser nobile, santo, pittoresco servire il popolo, alleviare le sue pene, istruirlo! Ma lei, Vera, non conosce il popolo… Esso è per lei estraneo, privo d’interesse; ella non sopporta l’odore greve delle isbe, le parolacce delle bettole, i bambini non lavati, i discorsi delle donnette”. A poco a poco Vera Ivànovna si arrende alla mediocrità della vita quotidiana e sposa il dottor Nes’cianov, un buon partito locale. L’onestà e la franchezza di Čechov operano in questo modo nei suoi racconti: che i suoi personaggi vengono messi, in un certo senso, con le spalle al muro; la loro condizione psicologica e morale, che all’inizio è confusa e poco comprensibile per loro stessi, si sviluppa e si chiarisce, ed essi prendono o, almeno, si avvicinano a prendere coscienza di sé, anche se poi continuano a vivere come prima e a fare le medesime cose. Fra tanti personaggi umanamente incompiuti e a disagio nell’esistenza, è particolarmente cara al cuore dei lettori, nel racconto ‘I contadini’, la figura di Olga, moglie del cameriere Nikolài Cikildeiev. Costui, gravemente malato, torna da Mosca nel paese natìo con la moglie e la figlia Sascia. L’isba dei genitori, magri, curvi e sdentati, era la più povera e la più vecchia. Nikolài, “quando vide con quale avidità il vecchio e le donne mangiavano il pane nero, inzuppandolo nell’acqua, capì che invano egli era venuto lì, malato, senza denaro e per di più con la famiglia”. Sul pane e sulle stoviglie andavano e venivano gli scarafaggi, era ripugnante bere, e anche la conversazione era ripugnante. Ma Olga, che ha un’anima religiosa e uno spirito puro, appena arrivata in paese, guardandosi intorno, dice, segnandosi in direzione della chiesa: “Com’è bello qui da voi! Che vastità, Signore!”. Essa sa consolare la cognata Mària, continuamente picchiata dal marito ubriacone e così infelice da desiderare la morte, legge il Vangelo a voce alta e prèdica la bontà verso tutti: contadini, tedeschi, zingari, ebrei, e anche verso gli animali. Quando parlava di queste cose sacre, “il viso le si faceva compassionevole, commosso e radioso”. Olga era talmente immersa in una dimensione spirituale, che quando andava in pellegrinaggio, “si dimenticava affatto della famiglia, e solo quando ritornava a casa, faceva a un tratto la gioiosa scoperta che aveva un marito e una figlia, e allora diceva, sorridente e raggiante: Dio mi ha mandato una grazia!”. La visione che Čechov ha della realtà non è di un pessimismo assoluto. La purezza d’animo e, in generale, la ricerca del significato della propria vita rendono il mondo sopportabile e la propria esistenza utile, anche se, da sole, non bastano a eliminare concretamente la miseria e a liberare la massa dei contadini dalla schiavitù del lavoro fisico. Čechov, questo, non lo ignora, e ne parla diffusamente nei suoi racconti.
mercoledì 1 gennaio 2025
Pino Aprile, con Luca Antonio Pepe. Meglio soli. La secessione del Sud stanco di essere una colonia. Piemme, 2024
I libri che mi è capitato di leggere negli ultimi anni sulla storia del
nostro Risorgimento hanno rafforzato la mia convinzione che il modo violento e
truffaldino con cui è stata attuata l’unità del nostro Paese abbia segnato
tutta la sua storia successiva, fino ad oggi. Quella convinzione, devo
ammetterlo, era fondata, più che su una precisa analisi dei fatti sociali,
soprattutto sulla percezione morale e politica che io ne avevo come cittadino.
Ora arriva fresco di stampa questo ultimo libro di Pino Aprile, scritto con
Luca Antonio Pepe, che dà a quella convinzione un contenuto di drammatica
verità. I due autori, dopo aver studiato con grande pazienza una quantità impressionante
di leggi, decreti, circolari, documenti parlamentari, programmi di partiti, testi
di esperti e di docenti universitari, dichiarazioni di uomini politici, relazioni
di istituti economici, statistiche di enti pubblici, ecc. ecc., hanno potuto
documentare questa conclusione: la discriminazione del nostro Mezzogiorno e il
furto delle sue risorse, iniziati dopo l’unificazione italiana, continuano
ancora oggi in modo efficace e senza scrupoli. L’impoverimento del Meridione d’Italia
è perseguito, oggi più che mai, con ottusa determinazione da tutti i partiti. Pino Aprile
e il suo collaboratore svelano ad abundantiam tutti i subdoli e meschini trucchi
messi in atto dai vari governi per negare al Sud i fondi che gli spettano per
legge. Per il Sud trovano solo belle e vuote parole di aiuto e di
incoraggiamento; al Nord, invece, mandano concreti e, secondo loro, meritati miliardi.