sabato 29 marzo 2025

Dedicato a Ursula von der Leyen

"LI SORDATI BONI" di G. G. Belli

Subbito ch'un zovrano de la terra
crede ch'un antro j'abbi tocco un fico,
dice ar popolo suo: "Tu sei nimmico
der tale o der tar re; faje la guerra".

E er popolo, pe sfugge la galerra
o quarch'antra grazietta che nun dico,
pija lo schioppo, e viaggia com'un prico
che spedischino in Francia o in Inghilterra.

Cusì, pe li crapicci d'una corte
ste pecore aritorneno a la stalla
co mezza testa e co le gamme storte.

E co le vite ce se giuca a palla,
come quela puttana de la morte
nun vienissi da lei senza cercalla.

 

giovedì 20 marzo 2025

Angelo d'Orsi. Intellettuali nel Novecento italiano. Einaudi, 2001


Ho ascoltato parecchi interventi politici del professor Angelo d’Orsi e li ho sempre trovati acuti, chiari e appassionati. Però questo libro, che raccoglie saggi scritti in tempi diversi, mi ha deluso. I personaggi di cui d’Orsi disegna il ritratto non sono sempre, almeno per me, di grande interesse. Ma il vero difetto del libro è che esso scoppia di documentazione. D’Orsi segue la vita e l’attività dei suoi personaggi con una precisione minuziosa che a me sembra eccessiva. Questa documentazione capillare poteva forse essere necessaria e digeribile all’interno di un quadro più ampio e animato da una prosa un po’ più aerea. Invece l’intero tessuto di ogni saggio sembra poco più di un documentatissimo curriculum vitae. Il caso più lampante è rappresentato dallo studio su Edoardo Persico (1900-1936), che è il più lungo dei cinque saggi dedicati a personaggi della cultura. D’Orsi descrive la sua vita e il suo attivismo, ma non spiega in che cosa consistesse la sua originalità, e, alla fine, dopo più di 100 pagine, conclude in coda di pesce, dichiarando che, nel campo delle lettere e delle arti, Persico fu “il grande suscitatore, l’infaticabile ammonitore: la coscienza socratica. Un Socrate in buona misura immaginario, il cui passaggio ha lasciato tracce innumerevoli, ma brevi e lievi, del suo passaggio [sic] in terra, tanto che a noi oggi è dato con difficoltà di ricostruirne il tragitto, di valutarne il peso e il senso”. - Nel primo saggio del volume d’Orsi traccia il profilo di Giovanni Gentile e di Marino Parenti per delineare i caratteri di due opposte figure di intellettuale. Parenti (1900-1963), appassionato di libri e di letteratura, fu collaboratore di Gentile in varie iniziative culturali. Nel filosofo siciliano d’Orsi vede, al di là della sua fede politica, il tipo dell’intellettuale militante; invece Marino Parenti incarna la figura dell’intellettuale funzionario. Il fascismo di Gentile  era idealistico e realizzatore, mentre il fascismo di Parenti si esauriva in un quieto opportunismo. Il regime fascista, scrive d’Orsi, inglobò e ingabbiò il ceto intellettuale italiano con un atteggiamento mecenatesco, attraverso una rete diffusa di istituzioni (premi letterari, mostre d’arte e gallerie, case editrici, l’Eiar, l’Istituto Luce, la Biennale di Venezia, l’Istituto per il medio ed estremo oriente, ecc.) che attirarono e assorbirono la maggioranza degli intellettuali rendendoli innocui e fedeli funzionari. Il vero uomo di cultura, però, ci ricorda d’Orsi, non può essere un funzionario al servizio di un partito o di una ideologia, deve essere un uomo libero  al servizio solo della verità, guidato dal senso di responsabilità.  Se l’uomo di cultura non è ispirato da questo principio, diventa un semplice venditore di fumo, divo del circo mediatico, instancabile copywriter, cioè scrittore di accattivanti e falsi messaggi pubblicitari. D’Orsi manifesta una certa simpatia, mi pare, per la coraggiosa e tragica coerenza che Gentile ebbe nell’ultimo anno di vita. Ed è paradossale che il filosofo fascista, che fu un intellettuale militante, seppur per la causa sbagliata, sia stato il principale artefice di una organizzazione culturale che ha appiattito il ruolo degli intellettuali ad una condizione servile. Luigi Russo scriverà, in una lettera ad Adolfo Omodeo, che Gentile è il realizzatore di un proprio “programma di domatore e di addomesticatore di uomini”. - Nel secondo saggio d’Orsi racconta la vita e l’attività di Aldo Capitini (1899-1968), intellettuale militante di un genere particolare, non impegnato direttamente nella politica, ma animato da un fervore religioso che gli ha ispirato fino agli ultimi giorni di vita una attività intensissima in campo etico, civile e pedagogico. Capitini non piaceva né ai fascisti né agli antifascisti; eppure la sua operetta degli anni Trenta (Elementi di un’esperienza religiosa), scrive d’Orsi, è un breviario dell’oppositore, un manuale dell’antifascista, nella misura in cui insegna la non accettazione e la non collaborazione. Nel dopoguerra, i principi sostenuti da Capitini furono, accanto alla nonviolenza, la laicizzazione dello Stato, l’obiezione di coscienza, l’uscita dai blocchi militari. Ma il suo rifiuto dei partiti burocratizzati e l’idea che morale e politica debbano essere legate lo resero inattuale ed estraneo alla sinistra ufficiale. Capitini fu tra i pochi che, dopo Hiroshima e Nagasaki, compresero la gravità della minaccia nucleare e avvertirono la drammatica novità della storia umana, posta dinanzi al bivio pace o distruzione. La rivoluzione permanente a cui Capitini ha dato una voce inconfondibile è fondata sulla mitezza, sulla gentilezza; essa vuole suscitare cambiamenti anche piccoli ma costanti, il cui esito finale sia una trasformazione  antropologica, la nascita dell’uomo nuovo. Non so se queste ultime espressioni d’Orsi le abbia prese dai testi di Capitini o se siano sue conclusioni. Personalmente, quando sento parlare di ‘uomo nuovo’, io non posso fare a meno di provare diffidenza. Non si dovrebbero coltivare queste pericolose chimere, quando anche il semplice sforzo di migliorare gli uomini si rivela una fatica di Sisifo, necessaria ma sostanzialmente vana. Sembra che lo pensasse anche la vedova di Piero Gobetti, Ada, che nell’aprile 1947, in una lettera di pieno consenso, scriveva a Capitini: “Possibile che si possa richiamare questa povera umanità cieca e pazza a quel fondamentale senso religioso che solo potrà darci la salvezza? Sono d’accordo con Lei [...] ma mi chiedo se veramente si riuscirà a concludere qualcosa; comunque vale la pena di tentare”. - Nemmeno il saggio su Carlo Levi sfugge ai limiti stretti di una ricostruzione quasi cronologica; però qui c’è qualcosa di più. Nelle descrizioni capillari che d’Orsi fa dei  giovani che si muovevano attorno a Piero Gobetti o che, arrivati troppo tardi, respiravano nella sua aura, c’è in d’Orsi una candida ammirazione, un rimpianto, una nostalgia accorata persino per i luoghi che quei giovani frequentavano, identificati tutti con precisione. Carlo Levi, temperamento ottimista, aveva una capacità di analisi storico-politica modesta e anche il suo rigore concettuale era fragile, però la coerenza e la limpidezza delle sue idee politiche e la sua dirittura morale erano fuori discussione. La sua passione politica faceva tutt’uno con la sua gioia di vivere, con una vitalità effervescente che lo avvicinava agli uomini e ai libri, alla pittura e alle bellezze della natura. Giuliana Segre Giorgi, cugina di Levi, lo ha definito una creatura solare, una specie di re Mida che quando vedeva una cosa se ne interessava con tanta passione da farla diventare meravigliosa. La sua scoperta del Sud, scrive d’Orsi, ci regala un capolavoro della letteratura, una pietra miliare della cultura civile del nostro paese. - L’ultimo saggio, su Leone Ginzburg (1909-1944), è forse il migliore e il più commosso. Uomo geniale per doti intellettuali e qualità carismatiche di capo, Ginzburg rinunciò a una brillante carriera universitaria, rifiutando di giurare fedeltà al fascismo, “per salvare la possibilità di tenere alta la testa e fermo lo sguardo”, e per difendere, assieme alla libertà della cultura, la dignità di un intero popolo, in ginocchio davanti al tiranno. “A distanza di oltre mezzo secolo dalla sua morte [violenta], anche noi guardiamo al russo di Torino come ad una luce”. Leone Ginzburg, conclude d’Orsi, “ci offre, dall’alto dei suoi brevi e giganteschi trentacinque anni non compiuti di esistenza, un esempio eccelso di soldato della battaglia ideale, quella del bene contro il male a qualunque costo”.

martedì 11 marzo 2025

Mimmo Franzinelli. Croce e il fascismo. Laterza, 2024

 

Molti anni fa portai ad un esame il libro di Benedetto Croce ‘Storia d’Italia dal 1871 al 1915’. Al professore che mi esaminava, Roberto Vivarelli, dissi che l'opera non mi era piaciuta perché era troppo retorica. Lui fu solo leggermente sorpreso e mi lasciò parlare liberamente. E’ da quella lettura che ho concepito per Croce una antipatia che dura tuttora e che il bel libro di Mimmo Franzinelli, che pure è tutto a favore di Croce, ha confermata. Certo il filosofo abruzzese durante il ventennio fascista ha dimostrato di essere un oppositore dotato di coraggio e di una grande capacità di resistenza. Però bisogna considerare che lui era un uomo, in tutti i sensi, molto moderato, che erano moderate non solo le sue idee politiche, ma anche il suo temperamento e il suo carattere. Tanta naturale e spontanea pacatezza poteva realizzarsi, suppongo, con relativa facilità anche in condizioni discretamente avverse. Coraggio, dunque, sì, ne ha avuto, ma poca cosa in confronto, per esempio, al principio espresso da Piero Gobetti in una lettera a Tommaso Fiore: “Dobbiamo rimanere fedeli alla nostra disperata intransigenza”. Da un punto di vista interiore, cioè dal punto di vista delle sue convinzioni politiche e morali, credo che la coerenza di Croce sia assoluta; ma è da un punto di vista esteriore, cioè dal punto di vista di una opposizione rigorosa e consapevole delle radici storiche del fascismo, che la sua attività sembra, a volte, incoerente e fiacca, sostenuta da convinzioni inadeguate e manchevoli. “Del fascismo, ha scritto Sebastiano Timpanaro, non riconobbe mai la natura antiproletaria, i legami con la grande borghesia agraria e industriale, né volle mai rintracciare nella storia dell’Italia prefascista i germi del fascismo, il quale fu perciò, secondo lui, una ‘parentesi’ nella vita del popolo italiano, una ‘malattia’ senza antecedenti e senza conseguenze”. Ma l’incomprensione di Croce fu ancora più grave: negli anni dell’ascesa, fino al 1925, egli credette nel fascismo, considerandolo un benefico contravveleno del socialismo, e scrisse che “il cuore del fascismo è l’amore della patria italiana, è il sentimento della sua salvezza, della salvezza dello Stato”. In questa dichiarazione e in molte altre espressioni dello stesso tenore, a me pare di cogliere una stortura teorica che forse è il peccato originale di Croce, la convinzione, cioè, che sia compito e dovere dello Stato tenere unito, in basso, anche con la forza, il popolo. Non è, quindi, il popolo unito a dover creare uno Stato democratico, ma è lo Stato che deve formare il popolo. Questa concezione spiega il suo idoleggiamento del Risorgimento e l’imperdonabile definizione dei contadini meridionali insorti contro la conquista piemontese come “truci e osceni briganti”. Per Croce, il popolo, in quanto costituito da persone reali in carne e ossa, è un elemento secondario e trascurabile. E' stata una grave mancanza di sensibilità. Dopo la definitiva rottura col fascismo e con Giovanni Gentile, il compito che Croce si attribuisce è la difesa della libertà e della cultura. E' soprattutto la libertà della cultura che gli sta a cuore. “Ogni giorno il regime, con le violenze, coi fattacci, con le parolacce [...] con l’esaltare le prodezze ciclistiche e automobilistiche e aeroplanistiche sopra le opera del cuore, della fantasia e dell’intelletto, e con l’indurre nei giovani il disprezzo per queste, contrasta la formazione dell’ambiente a loro favorevole”. In una lettera scritta a Giovanni Amendola pochi mesi prima della sua morte, per invitarlo a tornare in Parlamento e chiudere la secessione dell’Aventino, scrive: “C’è ora la questione elementare della libertà. E questa dovrebbe unire in un sol blocco tutti i partiti costituzionali, dai moderati ai democratici e riformisti”. Nel giugno 1925, conclude così un suo discorso ai liberali: “A noi, come a tutti coloro che lottano per un ideale, spetta ripetere le parole di Lutero innanzi alla Dieta di Worms: ‘Qui sto io’ ”. In questo momento non si può non ammirare la combattività di Benedetto Croce, e sembra naturale che Piero Gobetti lo definisca “il più perfetto tipo europeo espresso dalla nostra cultura”, e che nel giro di pochi anni venga considerato capo spirituale della resistenza al fascismo. Il culto che Croce ha per i patrioti del Risorgimento non è retorico, anche se egli lo esprime in forme retoriche, ma è sincero e drammatico. “Non si venera tutta la vita uno Spaventa o un De Sanctis per morire con la visione della loro riprovazione e del loro disprezzo [...] Io mi affido alla Provvidenza e ripiglio i miei studi con serenità, avvenga quel che vuole avvenire”. Croce è simpatico e degno di ammirazione anche quando, sotto i bombardamenti di Napoli nel 1943, preferisce restarsene a letto o a leggere nel suo studio, invece che scendere nel rifugio antiaereo.  Nel 1931 la legge obbliga i professori universitari a giurare fedeltà al Regime; solo pochissimi rifiutano, circa una dozzina su 1200. Luigi Einaudi e alcuni altri chiedono consiglio a Croce,  quasi fosse un papa laico, e lui consiglia di giurare. Questo consiglio sarà molto criticato da Gaetano Salvemini. Lui e Croce si trovarono in un salotto a Parigi, e Salvemini lo apostrofò bruscamente: ‘Avete fatto malissimo a consigliare a Einaudi di giurare’. Nel 1946 Salvemini scrisse di nuovo su questo consiglio sbagliato con ancora maggiore severità. Quello che stupisce di più è la spiegazione che ne dette Croce ad Alberto Cianca, in esilio a Parigi: “... Io ero convinto che, se alcuni non avessero giurato, si sarebbero pentiti dopo poco, e si sarebbero domandati: ‘Ma perché non abbiamo giurato? Perché non giurammo?’ Ho voluto che essi evitassero a se stessi il travaglio, la disperazione del prossimo domani”. Oltre che banale, questa spiegazione mostra scarsa stima dei professori antifascisti amici suoi. Non è il coraggio che mancò a Croce, ma la chiarezza delle idee. Dopo le sanzioni all’Italia a causa della guerra d’Abissinia, accetta l’invito a donare alla patria la sua medaglia di senatore. Gli antifascisti in carcere ne sono addolorati. Riccardo Bauer, “il più crociano di tutti i crociani”, dice che non avrà più alcuna stima di Croce come uomo politico. Anche la spiegazione che Croce dà di questo gesto è poco convincente. In un colloquio con Bianca Ceva, nel marzo 1936, tra altre cose dice: “Io, come storico, ho sempre visto che i mali d’Italia sono nati dalle sconfitte militari... non mi sentivo di augurare questo alla patria”. All'inizio del capitolo successivo a questo resoconto Mimmo Franzinelli pone come epigrafe un passo di Vittorio Alfieri, che sembra una tirata d’orecchi al nostro filosofo: “Non si può dir patria dove non c’è libertà e sicurezza; e non vi è nulla di onorevole nel difendere anche contro i nemici esterni un così fatto paese...”. Per dare una interpretazione dell’ascesa di Hitler al potere, Croce pubblica nel 1934 un saggio su La Critica: “...la decadenza è un momento eterno del progresso stesso, bisogna liberarsi della illusione del progresso senza decadenza (del fantastico progresso in linea retta, al quale giustamente il savio Goethe contrapponeva quello a spirale). Quanto più intensa è stata l’opera della civiltà, tanto più è da aspettare che le terrà dietro un rilassamento o un oscuro dibattersi travaglioso...”. Anche in questo concetto mi pare di vedere una stortura teorica che inficia le interpretazioni storiche di Croce. Lui vede le epoche come una successione di periodi di progresso e periodi di decadenza, prima la luce del Risorgimento, poi l’ombra del Fascismo, ecc., senza legami fra loro. Ma noi oggi sappiamo, perché lo possiamo constatare persino nella nostra esperienza quotidiana, che il progresso contiene già in sé il regresso, che la decadenza è l’altra faccia del progresso, che ogni innovazione ci fa progredire per un aspetto ma ci imbarbarisce per un altro aspetto, che è purtroppo sempre l’aspetto più importante. Al tempo di Croce, per non risalire più indietro, questo intreccio era già molto visibile, e non mancavano scrittori che ne fossero pienamente consapevoli (per es. Johan Huizinga, ma c'era già stato Leopardi). Anche sotto questo aspetto, le idee di Croce sembrano vecchissime, come sembra antiquata e irrealistica la sua religione della libertà come l’essenza stessa della storia umana. Ha scritto Sebastiano Timpanaro che questo concetto tutto interiore della libertà ha portato Croce a svalutare l’esigenza di una liberazione effettiva degli uomini da concrete situazioni di oppressione e di sfruttamento e a sopravvalutare il valore delle pure finzioni parlamentari. Mi ha sorpreso non trovare fra le tante citazioni di Croce che Franzinelli raccoglie nel suo libro nessuna che si riferisse alla guerra civile spagnola. Non posso pensare che Croce non vi avesse prestato attenzione. Forse Franzinelli ha volute celare qualche giudizio troppo impopolare del nostro filosofo? Non lo so. Qual è oggi l’eredità politica di Croce? Premesso che io sono soltanto un uomo della strada, credo che non rimanga niente, se non l’esempio di una personalità notevole per intelletto e cultura e per l’assoluta dedizione a un compito elevato.

 

lunedì 3 marzo 2025

Gad Lerner e Adriano Sofri: sempre dalla stessa parte


GAD LERNER HA SCRITTO: "Scrive Adriano Sofri che l'immagine di resistenza del presidente Zelensky nei palazzi governativi di Kiev ricorda le ultime ore di Salvador Allende assediato nel Palazzo della Moneda a Santiago del Cile".

AD ADRIANO SOFRI, CHE E' UN DANNUNZIANO DI QUART'ORDINE, DEVE ESSERE SEMBRATO ESTETICAMENTE ECCITANTE PARAGONARE ZELENSKY A SALVADOR ALLENDE. MA E' SOLO UNA LURIDA BESTEMMIA.

giovedì 27 febbraio 2025

Antòn Cechov (1860-1904). Il giudice istruttore (Tutte le novelle, IV). Biblioteca universale Rizzoli, 1952

I trenta racconti di questo volume appartengono a una fase intermedia dello sviluppo creativo di Cechov. Sono racconti brevi e hanno trame molto semplici centrate su una unica situazione, con solo pochissime scene. Qualche racconto è solo un divertente bozzetto umoristico (‘Dalla marescialla della nobiltà’, ‘L'ultima mohicana’); qualcun altro si svolge ancora secondo la visione di un naturalismo soffocante che toglie l’anima ai personaggi e li fa vittime passive degli eventi (‘La vecchia casa’, ‘Genterella’). Ma nella maggior parte dei racconti i caratteri sono descritti con grande finezza e penetrazione psicologica, ed hanno quella complessità di sentimenti, quel groviglio di luci ed ombre che rispecchia il pessimismo di Cechov e la compassione che egli ha per gli uomini, specialmente per gli esseri semplici, per i bambini e anche per gli animali. Con delicata sensibilità è sentita la bellezza della donna, che fa dimenticare il dolore ed eleva l’anima, ma la fa anche disperare a causa della sua irraggiungibilità (‘Bellezze’).  Ma Cechov non sa soltanto descrivere l’effetto soprannaturale della bellezza femminile; sa anche rappresentare l’anima della donna e le sue sfumature. Nel racconto ‘Una disgrazia’, Sofia Petrovna, una bella e giovane donna sui venticinque anni, resiste ad uno spasimante. “...Vi prego, Ivàn Michailovic’, se voi davvero mi amate e mi stimate, smettete le vostre persecuzioni... Io sono maritata, amo e stimo mio marito...”. Cechov segue il naturale sviluppo dei suoi stati d’animo e delle sue oscillazioni. Sofia Petrovna guarda il marito che mangia, e pensa: “Dio mio, io l’amo e lo stimo, ma perché mastica in modo così odioso?”. Alla fine, nonostante il desiderio di trovare degli ostacoli che le impediscano di tradire il marito, col pretesto di fare due passi, esce di notte per andare a concedersi all’amante. “Ansava, bruciava dalla vergogna, non sentiva le gambe sotto di sé, ma ciò che la spingeva innanzi era più forte della sua vergogna, e della ragione, e della paura...”. Nel racconto ‘Veroc’ka’, Vera Gavrìlovna, una fanciulla malinconica di ventuno anni, dichiara il proprio amore ad un uomo di convinzioni incerte e spiritualmente impotente. Torcendosi le mani, gli dice: “Io non posso restar qui! Mi sono venuti in uggia e la casa, e questo bosco, e l’aria. Io non sopporto la continua quiete e la vita senza scopo, non sopporto le nostre persone incolori e scialbe, che si rassomigliano tutte a vicenda, come gocce d’acqua! Son tutti cordiali e bonari, perché sono sazi, non soffrono, non lottano. E io voglio appunto andare nelle grandi case umide, dove la gente soffre, inasprita dal lavoro e dal bisogno”. Respinta con parole goffe e impacciate, si allontana bruscamente, con dignità, senza un lamento. Il suo bel sentimento energico e generoso, probabilmente destinato a svanire, è rivolto a un uomo troppo fiacco e incerto per poterlo raccogliere. Una donna simile a Véroc’ka è nel racconto ‘In cammino’. La giovane Maria Michàilovna Ilovaiski ascolta, per la prima volta nella vita, il racconto di un uomo avventuroso pieno di fervore e di fede nei suoi ideali. Il racconto e le circostanze del luogo le fanno una enorme impressione, tanto che “il creato le pareva fantastico, pieno di prodigi e di forze incantatrici. Tutto quello che dianzi aveva udito risonava nei suoi orecchi, e la vita umana le si presentava come una bellissima, poetica fiaba che non aveva fine”. Anche questo sentimento di felicità cosmica, descritto con tanta naturalezza, è probabilmente destinato a svanire, dopo un incontro così fugace. Nel racconto ‘Angoscia’ il vetturino Iona Potapov ha perso da pochi giorno il figlio e in una notte fredda e nevosa cerca di attaccare discorso coi passeggeri per parlare del proprio dolore, ma questi sono ubriachi o frettolosi e nessuno lo ascolta. Rientrato nella stalla, Iona abbraccia il proprio cavallo e parla con lui. La piena compiutezza morale, la maturità sentimentale di molti personaggi di Cechov non si realizzano perché gli incontri che potrebbero favorirle o sono impossibili oppure si sciolgono troppo presto, dopo poche ore, pochi giorni o pochi mesi.

mercoledì 19 febbraio 2025

Pier Paolo Pasolini. Descrizioni di descrizioni. Garzanti, 1996

Le mie letture di Pasolini sono avvenute in un arco di tempo molto lungo e non sono in grado di dare un giudizio  complessivo. Lo ascoltai per la prima volta dal vivo nei primi anni Sessanta, a Roma, alla Casa dello studente di via Cesare de Lollis. C’era un grande salone affollatissimo e Pasolini arrivò trafelato e in ritardo perché era stato attaccato per strada da un gruppo di teppisti fascisti. Lo ascoltai ancora alla Festa nazionale dell’Unità, alle Cascine di Firenze, un paio di mesi prima della sua morte tragica e precoce. Ma il mio incontro vero con lui avvenne con la lettura tardiva degli “Scritti corsari” e di “Lettere luterane”. Nei primissimi anni Sessanta avevo seguito con una certa continuità la rubrica  che lui teneva su ‘Vie nuove’, ma allora ero molto giovane e aderivo troppo al tempo presente per comprendere il valore di quello slancio e di quella protesta. Per tutti quegli anni considerai Pasolini solo un intellettuale interessante e ‘scandaloso’, capace di sconcertare, ma quei due libri, letti dopo la sua morte, mi fecero capire che era un maestro. Qualche anno dopo la sua scomparsa, il giornale La Repubblica ospitò un dibattito su di lui. Il direttore Eugenio Scalfari, con ottuso orgoglio  di progressista, deplorò il pessimismo di Pasolini e il fatto che non apprezzasse ‘le magnifiche sorti e progressive’ della società moderna. In quel dibattito, solo Pietro Ingrao, con un lampo di autentica intelligenza, affermò che gli acuti occhi dello scrittore avevano saputo vedere lontano. ‘Scritti corsari’ e ‘Lettere luterane’ ebbero il valore di confermare e chiarire i miei pensieri e  di rivelarmi la qualità del Pasolini intellettuale. Non so se dico una cosa già nota e chiarita: mi convinsi che i pensieri, le idee, i giudizi di Pasolini nascevano dalla sua intelligenza ma avevano radici nel suo corpo; che egli era un lettore e un pensatore che sentiva prima di tutto con il corpo. Probabilmente questo concetto avrebbe bisogno di ben altro approfondimento, ma intanto io so che sentire con il corpo non è un modo più basso di sentire, ma un modo più alto, più raffinato, più sincero e più onesto, in linea con la frase che Rousseau scrisse all’inizio delle sue ‘Confessioni’: “Ascolto il mio cuore e conosco gli uomini” (Je sens mon coeur et je connais les hommes). Sentire con il corpo comporta che i pensieri hanno una forza di convinzione e una cassa di risonanza che li rendono più veri, più profondi, più limpidi. Quando un uomo sente con il corpo, non  può cambiare facilmente bandiera secondo le convenienze, ma vive le sue idee con una coerenza che è necessaria quanto l’aria che respira; coerenza che può essere spezzata solo da un trauma altrettanto autentico. “Descrizioni di descrizioni” raccoglie gli scritti pubblicati nel corso di due anni sul settimanale ‘Tempo’. Non sono vere e proprie recensioni, ma libere divagazioni stilistiche, storiche e morali che partono quasi sempre da uno spunto autobiografico. “Il lettore si sarà accorto come queste mie pagine non siano di critica; ma siano semplicemente delle chiacchiere più o meno brillanti su un argomento su cui degli italiani, che abbiano fatto almeno il liceo, usano parlare”.  Per questo motivo non è facilissimo comprendere a fondo tutte le considerazioni stilistiche e psicoanalitiche che fa Pasolini; per questo bisognerebbe conoscere ogni libro esaminato, e questa conoscenza mi manca. Tuttavia le divagazioni di Pasolini sono molto vivaci e interessanti e confermano che egli è un lettore ‘corporale’, sempre schietto e sincero. Su una raccolta di poesie di Carducci. “Il manierismo carducciano mascherato di vitalità e salute (l’operazione più in mala fede di tutta la letteratura italiana)... mostra invece tutta la sua rozzezza e la sua mancanza d’intelligenza... Penso a che disgrazia è stata per gli adolescenti della mia età aver dovuto cominciare con l’interessarsi a un poeta così... Quante ore buttate via, quanta energia malamente sprecata, quanta aberrazione, quanta stupidità”. Analizzando le risposte di alcuni parlamentari ad un questionario sui personaggi dei Promessi Sposi, Pasolini scrive: “La prima preoccupazione di un parlamentare è la popolarità. Tutto ciò che potrebbe essere impopolare viene da lui rigidamente escluso dal proprio campo logico e verbale. Non lo fa neanche apposta, ormai: è un istinto. Bisogna scegliere Fra Cristoforo o l’Innominato (o addirittura, come fa Andreotti, quell’untuosa figura da santino che è il Cardinal Borromeo)”. Parlando dell’Eredità Ferramonti, Pasolini scrive che l’autore del romanzo ha avuto l’unico scopo di “dimostrare la qualità abbietta della piccola borghesia italiana, vista senza alcuna giustificazione, senza alcuna consolazione, senza alcun amore”. E questo giudizio sul romanzo esprime anche la ripugnanza di Pasolini, che lui manifesta, direi, continuamente. Sul Risorgimento dà un giudizio lapidario: nella primavera del 1861, Cavour  “cercava di gettare il discredito (corruzione, peculato, rapina) sulla Sinistra garibaldina, per liquidarla, e far rientrare tutto, al solito, nell’ordine (trasformare, in pratica, l’annessione del Sud in una colonizzazione, com’è poi avvenuto)”. Tutto vero, salvo il fatto che il discredito della Sinistra garibaldina era più che meritato, e che il governo piemontese lo ha strumentalizzato, dopo aver favorito il disordine, le ruberie, le violenze. In una pagina particolarmente profetica, Pasolini critica la novità del programma culturale dell’editore Rusconi,  che a me sembra in embrione l’odierna cultura woke, la cultura del politicamente corretto. “La cultura che Rusconi propone attraverso la sua grandiosa operazione non è conservatrice, se non in falsetto; essa finge di esserlo. Essa non può nascondere il suo totale cinismo, il suo aristocratico disprezzo per i sentimenti di un arcaico perbenismo e per un passato meschinamente nazionale (essa è internazionale, ormai, sia per formazione che per finalità)”. Questa nuova cultura rusconiana è la cultura dell’edonismo della società di massa, la quale non rispetta niente, nessun valore, e fa “piazza pulita dell’intero universo dell’ordine difeso dal fascismo”. Quella nuova cultura, cinica e senza vere ideologie, si presentava sotto spoglie tradizionali di destra e perciò riduceva la lotta antifascista a una lotta contro fantasmi: “ci costringe a inscenare una lotta antifascista così miserabilmente vecchia da sembrare un malinconico balletto di burattini... La cultura organizzata e imposta dall’operazione Rusconi è tutta lanciata verso il futuro in un totale agnosticismo rispetto ad ogni valore e in un totale cinismo reale verso l’intera storia passata”. Dopo oltre mezzo secolo,  quella cultura edonistica di massa si presenta oggi (miracolo dei cambiamenti storici) sotto il segno del progresso e della libertà, e domina quasi incontrastata. Voler combattere oggi una lotta antifascista di tipo tradizionale, quando siamo oppressi da una cultura edonistica di massa di dimensioni planetarie, è  una impresa futile, anzi è un diversivo (Queste ultime sono opinioni mie personali che a me sembrano avvalorate dalle antiche osservazioni di Pasolini). Siamo poco abituati ad una schiettezza così franca come quella di questi articoli. Pasolini scrive sempre quello che pensa, senza riguardi. Su Fenoglio è severo. “Il dovere di occuparmi di quei paesi, di quelle cittadine e di quelle campagne, cercando di decifrare quella prosa così grigia ma insieme così oracolare, che le esprimeva, mi è parsa subito una fatica quasi insormontabile”. Del romanzo più noto di García Marquez fa una descrizione che è forse la pagina più brillante del libro, e la conclude prendendosela con la “palude del mondo che decreta i successi letterari”. In questi articoli non mancano le rievocazioni di teneri momenti autobiografici, come la piccolo aula bolognese in cui Roberto Longhi faceva lezione prima della guerra, e che nel ricordo appare a Pasolini come “un’isola deserta, nel cuore di una notte senza più luce. E anche Longhi che veniva, e parlava su quella cattedra, e poi se ne andava, ha l’irrealtà di un’apparizione. Non potevo credere che, prima e dopo aver parlato in quell’aula, egli avesse una vita privata”. Il libro di Pasolini è una miniera ricchissima, forse inesauribile. Lui ha scritto: “la bella critica va letta sempre come un romanzo”. Ma nei suoi articoli l’elemento autobiografico è così scoperto ed è così presente un continuo filo polemico contro la scrittura inautentica, che ogni suo commento ha un taglio sconcertante, e il lettore deve ogni volta adattare la propria attenzione, come se dovesse salire e scendere una lunga serie di scale mobili tutte diverse.