lunedì 20 ottobre 2025
venerdì 19 settembre 2025
Anton Cechov (1860-1904). Il monaco nero (Tutti i racconti, IX). Biblioteca universale Rizzoli, 1976
Da alcuni mesi rileggo lentamente i racconti di Čechov nell’edizione della Biblioteca universale Rizzoli. Alcune raccolte le ho commentate, altre (Il fiammifero svedese, Uno scherzetto) no, per non ripetere cose già dette. Il volume ‘Il monaco nero’ mi suggerisce, invece, osservazioni in parte nuove. Čechov descrive i suoi personaggi, le case, l’abbigliamento e tutto ciò che può avere un significato con una attenzione e uno scrupolo che, in apparenza, sembrano appartenere a un antropologo o a un viaggiatore che venga da lontano a visitare un paese sconosciuto. Sono nominati con una precisione sorprendente, per esempio, i piatti che lo scrittore offre ai suoi personaggi, quando li mette a tavola. All’avvocato Lìssevic’, nel racconto ‘Il regno delle donne’, “piace mangiar bene, specialmente formaggi, tartufi, rafano grattugiato con olio di canapa, e a Parigi, a suo dire, mangiò budella arrosto nemmeno lavate”. Anna Akìmovna, la giovane e sensibile protagonista dello stesso racconto, beve una certa infusione molto amara e assaggia un po’ di carne salata con la senape. Poi la domestica serve una tacchina, mele in conserva e uva spina. “Dopo cena tolsero dalla tavola la tovaglia e vi misero su dei piatti con panforti alla menta, noci e uva passa”. La precisione di Čechov non è la meticolosità di uno studioso che osservi quel mondo dall’esterno, ma è il segno di una presenza e di una partecipazione sentimentale e, direi, anche fisica. Non importa all’autore che quei riti domestici siano a volte sgradevoli e persino disgustosi. L’avvocato Lìssevic’ “pregustava il pranzo, lo mangiava già mentalmente e si deliziava. Quando poi Anna Akìmovna lo condusse a braccetto in sala da pranzo ed egli, finalmente, si versò un bicchierino di vodca e si pose in bocca un pezzetto di salmone, allora si mise perfino a far le fusa dal piacere. Masticava in modo rumoroso, repellente, emettendo certi suoni dal naso, e i suoi occhi intanto diventavano untuosi e pieni di bramosia”. Qui il modo di mangiare diventa satira, mentre in altre occasioni è solo espressione di affabile convivialità. Ma in ambedue i casi, l’amore di Čechov per i dettagli della vita quotidiana dice quanto sia grande in lui il sentimento di essere russo, di appartenere, anche se a volte dolorosamente, a quel mondo. All’altro capo della scala sociale, rispetto all’avvocato Lìssevic’e ad Anna Akìmovna, nel racconto ‘Il violino di Rotschild’, Marfa, la vecchia moglie di Jakov, fabbricante di bare e suonatore di violino, invece del tè, beve, a causa della miseria, solo acqua calda. L’attenzione pietosa di Čechov! A me sembra che Čechov descriva la Russia, creando un grande affresco meraviglioso, con un occhio vergine, curioso e innamorato; e ne fanno fede la grande attenzione ai particolari e il suo stile semplice, che a volte sembra ingenuo e persino evangelico. Nel racconto ‘Il violino di Rotschild’, la morte della moglie Marfa induce Jakov, vissuto fino ad allora in uno stordimento senza memoria, a ripensare alla sua intera esistenza. “Si rammentò di nuovo che in tutta la sua vita non una volta aveva avuto pietà di Marfa ed era stato affettuoso con lei”. Nel suo ritorno al passato, Jakov, dopo cinquant’anni di smemoratezza, ritrova il salice in riva al fiume, dove, da giovani, lui e la moglie cantavano canzoni. “Sì, era proprio quel salice: verde, silenzioso, malinconico. Com’era invecchiato, poveretto!”. Le riflessioni di Jakov sono semplici: perché gli uomini fanno sempre proprio ciò che non bisogna? perché si impediscono a vicenda di vivere? Jakov seduto sulla soglia della sua isba, suona il violino pensando alla vita perduta e le lacrime gli corrono per le guance. Morendo, lascia il violino a Rotschild, un paesano che in vita aveva tanto detestato. Già solo nel breve racconto di Jakov e della moglie Marfa risplendono la forza e l’acutezza di Čechov nel costruire caratteri, e la sua sensibilità nel seguirne lo sviluppo, fino -quasi sempre- ad un momento supremo di crisi morale. Nella cornice antica di una Russia ottocentesca, i caratteri più riusciti mi sembrano quelli più moderni, cioè segnati da una personalità tiepida e oscillante. Nel ‘Racconto di uno sconosciuto’, il giovane e agiato impiegato Orlòv, presso il quale lo ‘sconosciuto’ presta servizio come domestico, rappresenta uno di questi eroi della società moderna. Prima di congedarsi, lo sconosciuto, che in realtà è un militante di una formazione rivoluzionaria, di famiglia nobile, gli scrive una lettera dove traccia un suo sarcastico ritratto. “… Sì, voi leggete molto e la marsina dell’europeo vi sta a pennello, ma tuttavia con qual delicata cura, puramente asiatica, vi preservate dalla fame, dal freddo, dallo sforzo fisico, dal dolore e dall’inquietudine! quanto presto la vostra anima s’è chiusa nella veste da camera! che parte di vigliacco avete fatto di fronte alla vita reale e alla natura!... E la vostra ironia? Il pensiero vivo, libero e ardito è indagatore e imperioso; invece per la mente pigra e oziosa è insopportabile… Vi siete armato di un atteggiamento ironico verso la vita, e il vostro pensiero, frenato e spaurito, non osa saltare al disopra della palizzata che gli avete posto davanti, e quando dileggiate le idee, che pretendete vi sian tutte note, somigliate al disertore che fugge ignominiosamente dal campo di battaglia…”. Quanti ne ho conosciuti, sul mio posto di lavoro, negli anni della contestazione, di personaggi che si atteggiavano a combattenti ed erano disertori! E sempre sul posto di lavoro, che era una piccola società completa di tutti i tipi umani, ho incontrato donne simili a Olga Ivànovna, protagonista del racconto ‘La saltabecca’. Lei cantava, suonava il pianoforte, dipingeva, modellava, recitava, ecc. “Ma in nulla la sua genialità si esprimeva così vivamente come nella sua abilità di far presto conoscenza e stringere relazione con le persone celebri. Bastava che qualcuno venisse solo un pochino in fama e facesse parlar di sé, perché ella già cercasse di conoscerlo e nello stesso giorno se lo amicasse e lo invitasse a casa sua”. Nel racconto ‘Il monaco nero’, il giovane intellettuale Andréi Vassilievic’ Kovrìn, malato di nervi, ha delle allucinazioni: ogni tanto gli appare un monaco vestito di nero, con la barba bianca e le sopracciglia nere. Già al primo incontro, la sola vista del monaco lo rende allegro, radioso, ispirato. All’incontro successivo, nel vasto giardino della famiglia che lo ospita, Kovrìn ha una conversazione con il monaco. Il giovane sa bene che il religioso è solo un miraggio e glielo dice, ma lui replica tranquillo: “Io esisto nella tua immaginazione, e la tua immaginazione è una parte della natura, dunque io esisto anche in natura”. Il monaco rivela che lui, Kovrìn, è un eletto di Dio, che i suoi pensieri e il suo meraviglioso sapere e tutta la sua vita hanno il suggello divino e sono consacrati a ciò che è ragionevole e bello, cioè all’eterna verità. Kovrìn obietta che, se il monaco è un’allucinazione, allora lui è psichicamente malato. Ma il religioso risponde che la genialità è parente della follia e che le persone sane e normali sono uomini del gregge e si occupano solo della vita presente. Kovrìn torna verso casa allegro e felice: le parole del monaco avevano lusingato non il suo amor proprio, ma tutta l’anima, tutto l’essere suo. Quelle parole non sembrano esagerate al giovane studioso, perché è ben consapevole che tutta la sua vita passata è stata casta e pura. “Cara Tania, io sono così lieto, così lieto!”, dice alla figlia del padrone di casa, innamoratissima di lui. Kovrìn sposa Tania, ma quando la ragazza si accorge che il marito parla da solo, immaginando di parlare col monaco nero, lo fa curare e lo guarisce dalla pazzia. Però Kovrìn, dopo la guarigione, non è più lui: l’anno prima, era gaio e vivace, ora ha il viso ingrassato e sbiancato, la testa rasata, senza più i suoi lunghi bei capelli e l’andatura fiacca. Nascono in lui un rimprovero e un odio implacabili verso la moglie e il suocero. “Perché, perché mi avete curato?... Io stavo diventando pazzo, avevo la mania di grandezza, ma ero allegro, vivace e perfino felice, ero interessante e originale. Adesso son divenuto più ragionevole e più posato, ma sono come tutti: un mediocre e mi è noioso vivere. Avevo delle allucinazioni, ma a chi ciò dava fastidio?”. Kovrìn diventa sempre più irritabile, capriccioso e attaccabrighe, e la storia finisce in modo drammatico, con la separazione dei coniugi e la morte del suocero. Io penso che Čechov, pur rispettando la normalità di Tania e di suo padre, i cui sentimenti non sono affatto meschini, abbia più simpatia per l’eccezionalità di Kovrìn. La sua confessata mania di grandezza non acceca né la sua sensibilità, né la sua capacità di capire gli altri, né si manifesta a danno degli altri, E’ solo, io credo, la consapevolezza di far parte di una sfera superiore di pensiero e di valori morali; più o meno lo stesso sentimento, mi sembra, che doveva provare Arthur Koestler, quando parlava di sé come ‘freccia nell’azzurro’ (Arrow in the Blue); assomiglia all'estasi di Puškin, quando scriveva: “Chi dobbiamo servire – il popolo o lo Stato? Non importa al poeta – lasciamoli aspettare!... Passeggiare sulla scia di se stessi, ammirando le divine beltà della natura e sentire la propria anima fondersi nell’ardore dell’ispirato disegno dell’uomo – questa è la vera gioia, questi sono i diritti!”.
lunedì 4 agosto 2025
Alexander Mitscherlich (1908-1982). Il feticcio urbano. La città inabitabile, istigatrice di discordia. Einaudi, 1972
Questo libro, pubblicato in Germania nel 1965, basato sull’esperienza della ricostruzione delle città tedesche nel secondo dopoguerra, non ha perso niente, dopo oltre sessant’anni, del suo valore di denuncia. Mitscherlich non era né un architetto né un urbanista, ma uno psicologo, e non si occupava dell’estetica della città, ma degli effetti psicologici che i brutti edifici, costruiti e ammassati senza criterio e senza rispetto per le esigenze umane, hanno sulle persone che vi abitano.
L’Autore dichiara di aver voluto scrivere un pamphlet “per mettere alla
gogna la tristezza dei tempi” (già allora!); egli non aveva ancora perso la
speranza che le cose potessero cambiare, “sol che si possieda il coraggio di
capire”, ma in realtà non si faceva molte illusioni. Ed aveva ragione! Io non
conosco le città tedesche, ma sono abbastanza sicuro che esse abbiano avuto
(probabilmente in una maniera meno indecente) lo stesso sviluppo delle città
italiane, devastate dalla speculazione. Le nostre città non sono semplicemente
inospitali (come dice il titolo originale del pamphlet), ma addirittura invivibili.
Questo è oggi sotto gli occhi di tutti, (da qui in poi faccio la parafrasi del
pamphlet di Mitscherlich) anche se l’abitudine ottunde la sensibilità e noi non
battiamo ciglio quando gli alberi vengono abbattuti e si drizzano le gru e quando
i giardini vengono inondati dall’asfalto. Il deserto urbano va estendendosi; perciò
noi dovremmo porre un freno alla devastazione in grande stile delle città e
all’immane distruzione del paesaggio. La città avrebbe due importanti funzioni:
per un verso essere il luogo della sicurezza, della produzione, del
soddisfacimento di molti bisogni vitali. Per un altro verso la città dovrebbe costituire
il terreno nutritivo, l’humus della coscienza umana, l’unico luogo che ne renda
possibile lo sviluppo. Oggi, però, scriveva l’Autore sessant’anni fa, non è più
così. Oggi la città, estendendosi smisuratamente, si è disgregata. La gente
danarosa è emigrata nei sobborghi, dove ha perduto ogni freno, ogni residuo di
dignità urbana, ogni senso degli obblighi che la città borghese una volta imponeva. Passeggiando per i sobborghi a
villette di Germania, Italia, Olanda, Inghilterra, ecc., si resta sopraffatti
dall’orrore del comfort, dalla monotonia e dal cattivo gusto. Le nostre città
rendono depressi gli abitanti. “Noi dopo la guerra abbiamo sciupato l’occasione
di edificare città pensate con più raziocinio, città autenticamente nuove”. La
città configurata, cioè pensata in un modo melodico, può diventare una patria, cioè
il luogo che ci dà identità e coscienza, quella invece semplicemente
agglomerata, non potrà mai diventare una patria. Si costruiscono case su case
in una disastrosa confusione o in una uniformità rigida e spaventosa. Le
vecchie città avevano un cuore. Oggi la monotonia degli elementi architettonici
e la moltiplicazione meccanica delle case nelle città-giardino è una prova
disgustosa di incapacità artistica e di egoismo. Le nostre città si
provincializzano e diventano inospitali, e decade l’alta
civiltà urbana che fu un tempo il centro di diffusione dei lumi.
Mitscherlich non ha alcuna fiducia che i partiti politici e le istituzioni
possano vincere la battaglia contro la speculazione. In modo, credo, retorico,
egli si appella al coraggio civile degli urbanisti e degli architetti. Ma dove
sono costoro? Le cose cambieranno solo quando lo scontento degli sfruttati
abitanti delle città ‘avrà assunto forme precise’, cioè, immagino, quando sarà diventato generale e organizzato in
forme politiche. Ma anche qui l’ottimismo di Mitscherlich tentenna, perché egli
sa bene che la capacità di adattamento dell’abitante della città è straordinaria. E oltre all’immensa capacità di adattamento
dei cittadini, è attiva una schiera di ‘tranquillizzatori occulti’, sociologi e
altri intellettuali, che si occupano vilmente di lodare, giustificare e far
accettare alla massa “quanto di irrisolto, di brutale, di spregevole c’è nel
nostro presente”. Costoro, affetti da moderno snobismo, ritengono di essere
vicini alla realtà e illuminati perché non partecipano ai sogni sentimentali
rivolti al passato. Per esempio, il ‘vicinato’ è un concetto che essi
respingono, è parola intrisa di sentimentalismo, ma questa parola conserva invece
il suo grande valore. Senza un vicinato che influisca sul piano emozionale, non
può sorgere una umanità matura. Nelle nostre città si cerca di soddisfare i
vari bisogni prescindendo dalla comunicazione. “La completa dissoluzione della
socialità urbana si rispecchia nella parola self-service”. Nei quartieri
residenziali, con quei caseggiati a cinque piani, schierati in fila l’uno
accanto all’altro, ben difficilmente una umanità urbana riesce a svilupparsi.
Se è ben tenuta e ordinata, la città diventa oggetto d’amore per i suoi
cittadini; diventa il consolante involucro nelle ore della disperazione e lo
scenario luminoso nei giorni festivi. Nella molteplicità delle sue funzioni, la
città rappresenta un mondo più antico di quello paterno. Le città armoniose del
passato sono tutte molto più che la somma delle loro strade e dei loro edifici.
Le città finora sono cresciute in un assai intenso nesso di interazioni tra gli
abitanti. E’ disastroso volerne programmare la crescita come si programma la
produzione di automobili. Il cittadino è oggi concepito dai costruttori non
come un individuo vivente, ma come un’entità astratta, un consumatore di vani
d’abitazione. Le sue esigenze umane non hanno alcuna importanza e sono
completamente ignorate. “Si stipino gli impiegati dietro le facciate di vetro
tutte uguali dei grattacieli e poi ancora nella monotonia del loro casamento
d’abitazione, e avremo vanificato ogni pianificazione in vista di una libertà
democratica. Purtroppo, come già detto, anche ciò che è più disumano e bizzarro
viene legittimato e santificato dall’abitudine. Sappiamo dalla storia che molte
società si sono ostinatamente adattate a condizioni di vita di cronico
immiserimento, a un ambiente miserabile. Del resto possiamo vedere anche oggi,
sia all’est che all’ovest, un processo di adattamento alla forma di vita
piccolo-borghese, un tempo tanto disprezzata dal proletariato rivoluzionario.
Le piante delle abitazioni offrono la migliore espressione della esistenza di
una borghesia raggrinzita. L’individuo può preservare la propria identità solo
se ha la possibilità di coltivare costanti rapporti con gli altri. Nella realtà
urbana di oggi [anni Cinquanta] questa esigenza viene del tutto trascurata.
L’impoverimento di relazioni durevoli nelle città provoca l’appiattimento e
l’impoverimento della capacità dei cittadini di partecipare alla vita comune e
di conseguenza un immiserimento dell’esperienza della vita. Mai in precedenza
nella storia si è avuta, per le esigenze dello ‘sviluppo tecnico’, una
distruzione così irresponsabile delle tradizioni che sorreggevano un ricco
tessuto di rapporti umani. E anche nei luoghi di vacanza, dove si crede di
trovare un ambiente sereno e libero, c’è lo stesso mondo urbano da cui si
fugge: tutti si ritrovano alla fine in alberghi e bungalow fatti alla stessa
maniera, con gli stessi elementi edilizi, nella medesima distribuzione delle
masse, si tratti del Westerland o di Rimini, delle coste della Florida o di
Cortina, di Davos o di Kitzbühel.
sabato 2 agosto 2025
Antòn Cechov (1860-1904). La steppa (Tutte le novelle, V). Biblioteca universale Rizzoli, 1953
Il volumetto contiene dieci racconti. “La steppa”, lungo quanto gli altri nove messi insieme, è soprattutto un poema lirico in cui gli uomini e le loro attività hanno un ruolo secondario, perché il racconto descrive quasi esclusivamente la bellezza eterna e favolosa di quel paesaggio russo. - Alcuni carri carichi di mercanzia viaggiano lentamente, d’estate, attraverso la steppa. Cechov descrive le figurette di alcuni carrettieri. Panteléi, un vecchio dalla barba bianca, magro e basso di statura, ha un viso scurito dal sole, severo e pensoso. Cammina scalzo accanto all’ultimo carro perché ha i piedi malati, rovinati dal gelo. Dimov, un bel giovanotto robusto e rosso di capelli, è un attaccabrighe. Kiriucha, dalla barba nera, ha una voce e una risata che rivelano una insuperabile stupidità. Poi ci sono Jemeliàn e Vassia. Vassia, assieme a Panteléi, è il personaggio più interessante. Per lui la steppa deserta e bruniccia è sempre piena di vita e di contenuto. Egli vede le volpi che giocano, le lepri che si lavano con le zampette, le otarde che spiegano le ali... Grazie alla sua vista acuta, oltre il mondo che tutti vedevano, Vassia ha anche un altro mondo suo proprio, non accessibile ad alcuno e bellissimo: quando egli guarda e va in estasi, è difficile non invidiarlo. Cechov descrive la steppa con la stessa sensibilità che ha prestato al carrettiere Vassia. - Sui carri c’è anche un bambino di nove anni, Jegòruska, che va in città per entrare al ginnasio. Era partito su uno scortecciato calesse con lo zio mercante e con l’arciprete del paese, ma, dopo un giorno o due di viaggio, è stato affidato ai carrettieri della carovana, diretta anch’essa in città. I pensieri di Jegòruska sono il tenue filo conduttore fra le tante situazioni che si avvicendano nel corso dei pochi giorni di viaggio. Il calesse col bambino, lo zio e l’arciprete parte la mattina molto presto, quando l’aria è ancora fresca. “Ma passò poco tempo, la rugiada evaporò, l’aria s’intorpidì, e la steppa delusa prese il suo aspetto accasciato di luglio. L’erba si chinò al suolo, la vita tramortì”. Alla sosta di mezzogiorno, “il tempo si trascinava senza fine, come se anch’esso si fosse intorpidito e fermato. Pareva che dal mattino fossero passati già cento anni”. - Le descrizioni del paesaggio si susseguono a ogni mutamento di luogo e di ora del giorno. “Vai per un’ora o due... Ti capita davanti sul cammino un taciturno vecchio ‘kurgàn’, o un simulacro di pietra, posto lì Dio sa da chi e quando, senza rumore passa a volo sopra la terra un uccello notturno, e a poco a poco ti vengono alla mente le leggende della steppa, i racconti delle persone incontrate, le fiabe della bambinaia nativa della steppa e tutto ciò che tu stesso hai saputo vedere e penetrare con la tua anima. E allora nel crepitio degli insetti, nelle figure e nei ‘kurgani’ sospetti, nel cielo azzurrino, nel chiaro di luna, nel volo dell’uccello notturno, in tutto ciò che vedi e odi, comincia a parerti di sentire il trionfo della bellezza, la giovinezza, il rigoglio delle forze e una sete appassionata di vita. E nel trionfo della bellezza, nell’esuberanza della felicità senti una tensione e un’ansia, come se la steppa avesse coscienza che è sola, che la sua ricchezza e la sua ispirazione si perdono invano per il mondo, da nessuno cantate e a nessuno necessarie, e attraverso il gioioso brusìo odi il suo ansioso, disperato richiamo: un cantore! un cantore!”. Cechov è stato, anche in altri racconti, il sublime cantore del paesaggio della steppa. Riporto un’ultima descrizione: “Nelle sere e notti di luglio più non gridano le quaglie e i re di quaglie, non cantano nei valloncelli boschivi gli usignuoli, non odorano i fiori, ma la steppa è tuttora bellissima e piena di vita. Appena tramonta il sole e la foschia avviluppa la terra, ecco che l’angoscia diurna è obliata, tutto è perdonato, e la steppa respira agevolmente a pieni polmoni. Quasi fosse per il fatto che l’erba non vede nelle tenebre la propria vecchiezza, si leva in essa un giocondo, giovanile crepitio quale non c’è di giorno; il crepitare, il fischiettare, il raspare, i bassi, i tenori e i soprano della steppa, tutto si fonde in un incessante, monotono brusìo, col cui accompagnamento è bello ricordare ed essere malinconici”. - In un paesaggio così sconfinato, eterno e fiabesco, la vita degli uomini sembra qualcosa di trascurabile e di passeggero. E in realtà lo è. Cechov però presta attenzione anche alle piccole vite delle figurette che s’incontrano nella steppa: carrettieri, mercanti, osti, ecclesiastici, cacciatori vaganti, pecorai, donne, contesse, e un gran signore a cavallo che scorrazza per la steppa da padrone, come un cavaliere dell’Apocalisse. E il bambino Jegòruska è seguito, nel suo smarrimento e nella sua solitudine, fin quasi sulla porta del ginnasio della città, dove lo zio mercante e l’arciprete del suo paese lo abbandonano al suo destino.
giovedì 10 luglio 2025
Anton Čechov (1860-1904). Una storia noiosa. (Tutti i racconti, VII). Biblioteca universale Rizzoli, 1975
Sì, è grazie alla sua immensa capacità di soffrire che il popolo russo ha vinto a Stalingrado e ha sbaragliato la Germania nazista. Il popolo statunitense, nelle condizioni dei russi, si sarebbe disgregato come una costruzione artificiale. Vedremo ora come si concluderà la guerra che gli Stati Uniti stanno facendo contro la Russia per interposta nazione.
mercoledì 21 maggio 2025
Albert Soboul (1914-1982). La Rivoluzione francese. Laterza, 1964
Il libro di Soboul, benché mi abbia richiesto un mese di applicazione, si può
liquidare brevemente: è un manuale noiosissimo che sarebbe stato più utile se
avesse avuto solo la metà o un terzo delle sue 654 pagine. Soboul ha un punto
di vista giacobino e sanculotto che io ora non intendo discutere. L’ho fatto, da
dilettante, commentando in passato altri libri sullo stesso argomento, e lo
farò ancora. Ora mi preme dare un giudizio sulla scrittura di questo storico,
che è essenzialmente amministrativa e notarile come una gazzetta ufficiale, ed
è sorprendentemente astratta. Pur parlando di fatti e di persone straordinarie
e sommamente teatrali, Soboul quasi sempre si limita a enunciazioni di nomi, di
luoghi e di date. La sua non è una storia di persone vere (sulla Vandea, per
esempio, scrive sì e no una paginetta), ma di ceti, di classi e di concetti. Ed
è solo così, parlando genericamente di concetti, di classi e di ceti, e
ignorando la concretezza e il sangue della realtà, che egli può affermare più
facilmente il valore del suo punto di vista.