Elio Chinol lo ricordo come collaboratore dell’Espresso, quando quel
giornale era grande come un letto a due piazze e pubblicava solo foto in bianco
e nero. Ho trovato per caso questo romanzo sconosciuto (nemmeno un commento in
internet) e non ho resistito al richiamo di quel titolo. ‘La vita perduta’,
pubblicato nel 1972, racconta le vicissitudini del popolino che abita in un
vicolo di Treviso verso la metà degli anni Trenta del secolo scorso. Tutta
gente povera e spesso malandata: operai, anziani ubriaconi, ladruncoli,
prostitute, giovani balordi, mogli infelici e sognatrici, ragazzi di strada
simpatici e avventurosi oppure, come nel caso del narratore, con la passione
per lo studio e destinati a una vita migliore. Il riferimento morale di tutte
queste persone, almeno ufficialmente, è il parroco, coadiuvato, per le opere di
beneficenza e per tenere i rapporti con le altre donne del vicolo, dalla
sorella nubile. Un microcosmo così pullulante di vita cittadina non era la
prima volta che veniva rappresentato in un romanzo. Un precedente classico è la
fiorentina via del Corno, i cui abitanti sono descritti con realismo lirico da
Vasco Pratolini nel suo ‘Cronache di poveri amanti’. Però nel romanzo di
Chinol, di lirico non c’è niente, ma non c’è nemmeno il crudo realismo di altre
descrizioni dello stesso mondo popolare. Qui, nella ‘Vita perduta’, raccontata
quasi per intero in una lingua tutta parlata che indulge al dialetto, c’è un
equilibrio raro fra divertita leggerezza e composta serietà. Si sorride per
molte vicende buffe vissute dai personaggi, ma si mostra una sobria pietà per
la malattia e la morte. Il romanzo, quindi, anche se si esprime in una forma
già usata di autobiografismo, ha una ispirazione autentica e originale; l’Autore
sa dare vita ai suoi personaggi e li fa sembrare veri e convincenti. La ventina
di pagine in cui il narratore racconta il suo amore per Isabella Rivoli, ricca
ragazza diciottenne che si fa chiamare Beba, sono le più belle del
romanzo, così intensamente belle che sembrano un episodio estraneo al racconto. Sia il
narratore che la ragazza sono descritti con una leggerezza e una verità in cui
è commovente riconoscersi. L’innamorato scrive poesie e le porta a leggere al
Mainardi, un giovane appena sopra i vent’anni, autodidatta, appassionato di
letteratura. Il Maina, benché compaia poco e in secondo piano, è assieme al
Ceo, ragazzo ribelle e avventuroso, il personaggio più originale del romanzo. E’
un artista che vuole fare della religione dell’arte la ragione della sua vita e
si tormenta nella fatica di rendere in
lingua il mondo dialettale. “Una volta che era andato a comperare un’anguria,
il fruttivendolo, un omaccione gigantesco, gliene aveva scelto una e per rassicurarlo
che era buona gliel’aveva avvicinata all’orecchio e l’aveva fatta scricchiolare
stringendola fra le sue mani enormi. <El senta, el senta>, gli aveva
detto, <ea sgrenze come a testa de un putèo>”. Il Maina era rimasto
impressionato da questa frase. <Che bello, ostia! Che forte! E’ quasi una
sensazione fisica, lo senti nei denti. Ma se lo traduci nella lingua con ‘scricchiola’,
non ti resta più niente>.
lunedì 20 ottobre 2025
Elio Chinol (1922-1996). La vita perduta. Longanesi, 1974
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