lunedì 20 ottobre 2025

Elio Chinol (1922-1996). La vita perduta. Longanesi, 1974

Elio Chinol lo ricordo come collaboratore dell’Espresso, quando quel giornale era grande come un letto a due piazze e pubblicava solo foto in bianco e nero. Ho trovato per caso questo romanzo sconosciuto (nemmeno un commento in internet) e non ho resistito al richiamo di quel titolo. ‘La vita perduta’, pubblicato nel 1972, racconta le vicissitudini del popolino che abita in un vicolo di Treviso verso la metà degli anni Trenta del secolo scorso. Tutta gente povera e spesso malandata: operai, anziani ubriaconi, ladruncoli, prostitute, giovani balordi, mogli infelici e sognatrici, ragazzi di strada simpatici e avventurosi oppure, come nel caso del narratore, con la passione per lo studio e destinati a una vita migliore. Il riferimento morale di tutte queste persone, almeno ufficialmente, è il parroco, coadiuvato, per le opere di beneficenza e per tenere i rapporti con le altre donne del vicolo, dalla sorella nubile. Un microcosmo così pullulante di vita cittadina non era la prima volta che veniva rappresentato in un romanzo. Un precedente classico è la fiorentina via del Corno, i cui abitanti sono descritti con realismo lirico da Vasco Pratolini nel suo ‘Cronache di poveri amanti’. Però nel romanzo di Chinol, di lirico non c’è niente, ma non c’è nemmeno il crudo realismo di altre descrizioni dello stesso mondo popolare. Qui, nella ‘Vita perduta’, raccontata quasi per intero in una lingua tutta parlata che indulge al dialetto, c’è un equilibrio raro fra divertita leggerezza e composta serietà. Si sorride per molte vicende buffe vissute dai personaggi, ma si mostra una sobria pietà per la malattia e la morte. Il romanzo, quindi, anche se si esprime in una forma già usata di autobiografismo, ha una ispirazione autentica e originale; l’Autore sa dare vita ai suoi personaggi e li fa sembrare veri e convincenti. La ventina di pagine in cui il narratore racconta il suo amore per Isabella Rivoli, ricca ragazza diciottenne che si fa chiamare Beba, sono le più belle del romanzo, così intensamente belle che sembrano un episodio estraneo al racconto. Sia il narratore che la ragazza sono descritti con una leggerezza e una verità in cui è commovente riconoscersi. L’innamorato scrive poesie e le porta a leggere al Mainardi, un giovane appena sopra i vent’anni, autodidatta, appassionato di letteratura. Il Maina, benché compaia poco e in secondo piano, è assieme al Ceo, ragazzo ribelle e avventuroso, il personaggio più originale del romanzo. E’ un artista che vuole fare della religione dell’arte la ragione della sua vita e  si tormenta nella fatica di rendere in lingua il mondo dialettale. “Una volta che era andato a comperare un’anguria, il fruttivendolo, un omaccione gigantesco, gliene aveva scelto una e per rassicurarlo che era buona gliel’aveva avvicinata all’orecchio e l’aveva fatta scricchiolare stringendola fra le sue mani enormi. <El senta, el senta>, gli aveva detto, <ea sgrenze come a testa de un putèo>”. Il Maina era rimasto impressionato da questa frase. <Che bello, ostia! Che forte! E’ quasi una sensazione fisica, lo senti nei denti. Ma se lo traduci nella lingua con ‘scricchiola’, non ti resta più niente>.

 

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