martedì 10 dicembre 2024

Giampiero Carocci (1919-2017). Il Risorgimento. Newton Compton, 2006

Questa operetta è il perfetto pendant del libro di Alberto Mario Banti, Il Risorgimento italiano, che ho commentato nell’articolo precedente. Ho voluto leggerli di seguito per la curiosità di scoprire quanto si assomigliassero le loro omissioni, mistificazioni e bugie. Nell’edizione Olschki le lettere di Cavour occupano ben 21 volumi, eppure sia Banti che Carocci, che si suppone le abbiano studiate tutte con attenzione, per dimostrare il grande amore che lo statista piemontese aveva per il parlamento, non hanno trovato di meglio che citare lo stesso passo della stessa lettera. Ho già detto quanto quella lettera sia retorica e poco limpida (come invece sostiene il Banti). Ora aggiungo: la frase di Cavour “Io non mi sono mai sentito debole, se non quando le camere erano chiuse” è un piccolo indizio del fatto che egli amava il parlamento soprattutto perché gli faceva da scudo contro le interferenze del re. Se questo è vero (ed è vero), anche l’altra frase “Sono figlio della libertà, è ad essa che debbo tutto quel che sono” ha il significato limitato di un Cavour geloso, sì, della propria libertà, ma non per questo incline a riconoscere e rispettare la libertà degli altri. Carocci scrive parecchie cose inesatte: che i morti della spedizione di Crimea furono solo 29 (e le migliaia di morti a causa del colera?); che il generale La Marmora era simpatico perché assomigliava ai grandi capitani di commedia (ma dimentica che questo simpaticone nell’aprile 1849, per ordine di Vittorio Emanuele, aveva bombardato la popolazione civile di Genova e che poi difese gli stupri commessi dalle sue truppe con queste abiette parole: “i soldati erano bei giovani e in quelle violenze le donne avean pure provato un piacere”); che ai Mille si unirono presto molti altri volontari, tra cui “alcune centinaia, che avevano disertato dall’esercito piemontese” (invece erano soldati regolari senza uniforme ‘prestati’ dal governo; intervento illegale simile a quello che viene fatto oggi in Ucraina); che le battaglie di Calatafimi, Palermo e Milazzo “furono una cosa seria”; ecc. ecc. Cavour aveva l’obiettivo di affermare la laicità dello stato. Progetto encomiabile. Però il suo principio “libera chiesa in libero stato” non riesce a giustificare la soppressione dei conventi e l’incameramento dei beni ecclesiastici. Riguardo alla spaccatura creatasi con la Chiesa, Cavour, scrive Carocci, “era animato da una grande speranza, che si nutriva della sua fede non meno grande nella libertà”. E Carocci cita un discorso di Cavour: “Io credo che la soluzione della Questione romana debba essere prodotta dalla convinzione, che andrà sempre più crescendo nella società moderna, ed anche nella grande società cattolica, essere la libertà altamente favorevole allo sviluppo del vero sentimento religioso”. La libertà favorirebbe lo sviluppo del vero sentimento religioso? Ma è proprio il contrario. Cavour vuole fare qui anche il teologo modernista, e per questo piacerebbe tanto a Papa Francesco. Però sbaglia. Il sentimento religioso è l’anima della libertà. La libertà non è niente se è vissuta senza un sentimento religioso (il cui fondamento, comune a tutte le religioni, consiste nella convinzione di vivere per uno scopo superiore alla propria persona). Carocci non capisce la drammatica attualità di questo intreccio, giudica positivamente il pensierino di Cavour, che a me sembra solo un espediente verbale, e conclude: “Da una Chiesa che avesse fatto suoi i principi di libertà e che da questi fosse vivificata [addirittura!] ... l’Italia non aveva nulla da temere”. Un altro problema di grande importanza che si presentò al governo sardo fu questo: il nuovo stato avrebbe dovuto avere un ordinamento accentrato o decentrato? Cavour, dice Carocci, era favorevole al decentramento, ma poi Luigi Carlo Farini, ministro dell’interno, gli scrisse dal Sud il 27 ottobre 1860: “Amico mio, che paesi sono mai questi, il Molise e Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile...”. Cavour cambiò subito opinione (che tempra!), convinto che occorresse imporre l’unificazione al Mezzogiorno, “alla parte più corrotta e più debole d’Italia. Sui mezzi (sono parole di Cavour) non vi è pure gran dubbiezza: la forza morale e, se questa non basta, la fisica”. Noi non siamo sorpresi da questa rozzezza; eravamo sicuri che la grande fede di Cavour nella libertà, tanto sbandierata e lodata, si sarebbe risolta, alla fine, con l'offerta, nella mano sinistra, di un presentimento del libro Cuore (pubblicato nel 1886) e con la minaccia, nella mano destra, di un fucile ben carico. Ha scritto il filosofo Andrea Caffi, 1887-1955, "lasciamo Cavour ai cultori di sagge amministrazioni, di scaltre diplomazie e di gerarchie sociali fondate sulla proprietà privata... Anche le camicie rosse portavano con sé troppi germi di squadrismo".

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