lunedì 28 giugno 2021

Johann Wolfgang Goethe, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister.

La lettura di questo romanzo (nella edizione B.U.R. del 1954, che ha un titolo leggermente diverso da quello più diffuso nelle traduzioni italiane) è stata così noiosa e faticosa che, vista l'importanza che gli viene attribuita e il gran nome dell'autore, ho dovuto riempire di appunti un intero quaderno per cercare di giustificare,  almeno davanti a me stesso e contro la generalità dei giudizi, il mio scarso interesse. Mi ero accostato a questo libro senza alcuna riserva e anzi con la certezza di trovare in esso un'opera bella e profonda. Ma io, per quello che posso giudicare, ho il "limite" di avere un gusto letterario che si è formato sul romanzo realista dell'Ottocento, con personaggi ben descritti fisicamente e psicologicamente, con paesaggi strade e case descritte in modo concreto e, nello stesso tempo, poetico e simbolico, con intrecci verosimili, non favolosi né miracolosi. Il romanzo di Goethe, invece, è un'opera settecentesca (alcune scene, nella prima parte, sembrano ispirate a quadri di Watteau), didascalica e, direi, astratta, dove le cose e i fatti non sono rappresentati, ma soltanto detti con un profluvio di parole che si concludono sempre con sentenze o osservazioni morali piuttosto vaghe, ovvie e generiche. I personaggi, anche pochi istanti dopo che si sono incontrati e conosciuti, cominciano a fare lunghi discorsi di carattere artistico-culturale o a raccontare la propria vita o le vicende di altre persone, senza che si capisca in quale contesto facciano queste lunghe narrazioni, con quale atteggiamento, in quale posizione. Sono rigidi e immobili in uno spazio vuoto, vere statue parlanti. Solo Filina, giovane donna bella leggera e generosa, sembra avere un po' di consistenza e (cosa assente in tutto il romanzo) un briciolo di comicità. Tutto l'intreccio, poi, vive di infiniti casi ed episodi che hanno uno svolgimento improbabile che evoca l'atmosfera di una favola con le sue  coincidenze miracolose, dove tutti i fili di narrazioni che sembravano isolate convergono in un unico punto e si riannodano. Ma ciò non sarebbe un grave difetto, se questi casi fossero almeno commoventi o suggestivi, come pure avviene nelle belle favole. In realtà sono pure enunciazioni: sono casi soltanto dimostrativi. Il suicidio dell'arpista, che si taglia la gola e si lascia morire dissanguato, non ci colpisce minimamente (è infatti già dimenticato al rigo successivo e non turba la serenità, o l'indifferenza, degli altri personaggi). I matrimoni di Lotario con Teresa e di Guglielmo con Natalia, che concludono il romanzo, non suscitano nessuna emozione, sono solo enunciazioni o dimostrazioni. Suscita un po' di pena solo la morte di Mignon, povera fanciulla misteriosa. Ma la pena è forse causata più che altro dalla repentinità e dal modo della morte; e, a parte l'esteriore solennità del funerale, tutti se ne fanno presto una ragione. La natura di "romanzo di formazione" che tutti i critici sottolineano non mi pare che di per sé possa costituire la grandezza del romanzo. Anche il contrasto fra Guglielmo, "artista", e l'amico e cognato Werner, "commerciante", che dimostrerebbe l'inconciliabilità fra la sfera dell'ideale e il mondo degli affari, è diluito in un flusso infinito di circostanze artificiose e non ha alcuna icasticità. Perciò non posso comprendere il giudizio che di quest'opera dette Federico Schiller: "Essa è tranquilla e profonda, chiara e incomprensibile come la Natura". Tuttavia a pagina 550, nelle parole dell'abate che critica l'arte contemporanea, ho trovato una vera perla, una rappresentazione acuta e sarcastica della società dell'epoca che è anche una visione profetica del mondo di oggi: "Peraltro, siccome la maggior parte degli uomini non hanno una forma loro propria, né possono dare una forma determinata a se stessi e al loro essere, essi lavorano per togliere agli oggetti la forma loro propria, affinché tutti diventino quella materia grezza e informe che sono essi stessi. Riducono ogni cosa, insomma, al cosiddetto effetto, tutto proclamano relativo, e tutto diventa relativo, all'infuori dell'imbecillità e del cattivo gusto, che dominano assoluti".
 

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