Questo romanzo
racconta la drammatica e improbabile storia d’amore fra l’inglese Oswald Nelvil
e l’anglo-italiana Corinne, due personaggi poco simpatici perché astratti e
stilizzati su un registro troppo enfatico; tuttavia contiene decine di
profonde osservazioni sull’amore, sulle arti e sulla vita che, se fossero
raccolte in un libretto, formerebbero da sole una meditazione morale di alta
qualità.
Il pensiero che segue mi
piace in modo particolare, perché sono anni che lo rimugino per resistere alla ventata
di stupidità che soffia da qualche decennio sul mondo intero:
“Si impara a non
arrabbiarsi troppo per gli avvenimenti del proprio tempo, se si considera
l’eterna mobilità della storia degli uomini; e, davanti a tanti secoli che
hanno tutti rovesciato l’opera dei loro predecessori, quasi ci si vergogna di
essere sgomenti”.
A questo pensiero
fa da contrappunto quest'altra considerazione di moderna e fragile sensibilità:
“Arriva fin troppo
presto il momento in cui l’esistenza diventa faticosa sia in ogni suo istante che
nel complesso della sua durata, il momento in cui ciascun mattino richiede uno
sforzo per sopportare il risveglio e trascinare la giornata fino alla sera”.
Questi sentimenti
crepuscolari fanno forse pensare che la Staёl avesse una natura riservata e
introversa. Invece, come è noto, era una donna di grande personalità e dalla
conversazione torrentizia. Sainte-Beuve ricorda un aneddoto molto divertente.
Madame de Staёl era in una compagnia che, dopo una gita, tornava di sera verso
casa in due carrozze. “Un temporale, con tuoni spaventosi, scoppiò durante il
ritorno. In una delle due carrozze le dame si fecero prendere dalla paura; si
fece fermare, e discesero nel momento in cui i tuoni erano più forti [...]
Nell’altra carrozza, all’arrivo, si scoperse che si era fatta pochissima
attenzione al temporale; non si erano quasi accorti di nulla [...] Gli è che un
ben diverso bagliore aveva riempito la scena: la signora di Staёl si trovava
nella carrozza, e durante il percorso non aveva fatto che parlare. La
conversazione aveva avuto per punto di partenza le appassionate lettere della
signorina di Lespinasse. La Staёl non aveva parlato sola, poiché ammetteva di
buon grado le repliche, ma aveva tutti animato, esaltato e sollevato al proprio
livello e al proprio grado di entusiasmo: una elettricità aveva fatto
dimenticare l’altra”.
In “Corinne”
l’amore dell’autrice per la conversazione si rispecchia in modo sovrabbondante.
Fra i due protagonisti innamorati ci sono quasi soltanto lunghi dialoghi didascalici, che non costituiscono materia viva di racconto, anche se contengono frammenti personali e autobiografici che sono interessanti, ma che potrebbero figurar bene solo in un diario intimo. In un dialogo quasi declamato, invece, sembrano fuori posto e anzi disturbano. Per questi motivi il romanzo è poco leggibile e poco
conosciuto. Tuttavia Madame de Staёl è una grande scrittrice. Ma,
sollecitata dalla sua immensa cultura e, direi, moralmente impegnata a sviluppare i suoi ampi interessi storici e sociali, ha compresso
volontariamente le sue notevoli capacità
di narratrice. Queste, però, si rivelano pienamente nelle poche
descrizioni di paesaggio e d’ambiente, nelle acute osservazioni psicologiche sugli aggrovigliati rapporti fra Oswald e Corinne e fra Oswald e Lucile, nelle rare ma penetranti descrizioni fisiche di personaggi minori (Madame d’Arbigny e
la stessa Lucile), nella satira di costume (la cerimonia del tè nei buoni
salotti inglesi).
La descrizione del
convento romano dei Certosini è bellissima.
“Il modo di vivere
dei Certosini presuppone, negli uomini che sono capaci di adattarvisi, o uno
spirito estremamente limitato, oppure la più nobile e costante esaltazione dei
sentimenti religiosi. Questa successione di giorni senza varietà di avvenimenti
richiama quel verso famoso: ‘Sui mondi distrutti
il Tempo immobile dorme’. Sembra che la vita serva là dentro solo a
contemplare la morte. La mobilità delle idee, in una esistenza così uniforme,
sarebbe il più crudele dei supplizi. In mezzo al chiostro si alzano quattro
cipressi. Quest’albero nero e silenzioso, che nemmeno il vento riesce ad
agitare, non introduce in quello spazio alcun movimento. Accanto ai cipressi c’è
una fontana da cui esce un filo d’acqua che si sente appena, tanto il getto è
debole e lento; si direbbe che è la clessidra adatta a quella solitudine, dove
il tempo fa così poco rumore. A volte la luna vi penetra con la sua pallida
luce, e la sua assenza e il suo ritorno in quella vita monotona sono dei grandi
avvenimenti”.
Questo romanzo è
citato più volte all’inizio dello Zibaldone di Leopardi, e in effetti contiene
idee che non potevano non piacere al poeta di Recanati. Per esempio, questa:
“La civilizzazione
tende costantemente a rendere tutti gli uomini simili in apparenza e quasi
uguali nella sostanza; ma lo spirito e l’immaginazione si sviluppano nelle
differenze che distinguono le nazioni: gli uomini tendono ad assomigliarsi fra
loro solo grazie all’affettazione o al calcolo; invece tutto ciò che è naturale
è vario”.
E questo era il
grande intelletto di Madame de Staёl!
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