domenica 15 marzo 2020

Šolochov Michail Aleksandrovič, Il placido Don. Roma, Editori Riuniti, 1957.


Questa edizione del Placido Don (quattro volumi rilegati in un robusto e colorato cofanetto) fu acquistata da mio padre nel 1958, assieme ad altre pubblicazioni della casa editrice del partito comunista. Mio padre le comprò solo per assolvere nei confronti del partito a un dovere di iscritto. Per quasi quarant’anni quei libri rimasero su uno scaffale senza che nessuno nemmeno li sfogliasse.  Successivamente hanno riposato indisturbati per altri venticinque anni sui palchetti di casa mia. Dunque erano più di sessant’anni che Il placido Don, entrato nella mia famiglia quando ero ancora ragazzo, attendeva di essere letto; e quando mi sono messo a questa impresa, qualche settimana fa, ho provato il piacevole  sentimento di riparare a una mancanza.
Poiché già a metà degli anni Sessanta io non ero più un comunista ortodosso, la fama di Šolochov di essere stato uno stalinista e un sostenitore ossequioso del potere sovietico aveva spento ogni possibile interesse per la sua opera.
Inoltre il suo nome è stato in questi decenni, per quel che ne so, completamente assente dal dibattito culturale della sinistra e dagli interessi dei critici letterari che costituivano un riferimento e un esempio. Tanto è vero che su Šolochov c’è in italiano pochissima bibliografia, nessuno studio, solo qualche articolo e poche pagine contenute in storie letterarie che, al momento, sono per me irreperibili.  Nemmeno  il recente saggio di Brian J. Boeck (“Stalin’s scribe: literature, ambition, and survival: the life of Mikhail Sholokhov”) è stato tradotto in Italia,  probabilmente per la mancanza di un pubblico interessato.
Perciò ho affrontato la lettura del Placido Don senza conoscere i giudizi della critica e piuttosto prevenuto nei confronti di Šolochov a causa della sua carriera politica e, oso dirlo, della sua faccia antipatica, ma con la curiosità di conoscere finalmente quest’opera sterminata di oltre duemila pagine.
La lettura è stata nel complesso molto piacevole. Un lungo viaggio nella steppa, da un villaggio all’altro, con lunghe soste nelle case dei contadini cosacchi, rappresentati in modo vivace e realistico, con il loro linguaggio schietto espressivo e volgare. E la guerra: prima contro i tedeschi, poi fra cosacchi insorti e truppe bolsceviche. Il racconto di Šolochov è abbastanza  equilibrato fra le ragioni degli insorti e quelle dei bolscevichi. Benché alla fine l'Autore porti l’insorto Gregorio Melechov, dopo tante avventure e peripezie spesso squallide e deprimenti, a rinunciare a combattere facendogli gettare nel fiume fucile pistola e cartucce, decretando in questo modo, di fatto, la supremazia del potere sovietico, Šolochov  mostra, però, anche l’ottusa ferocia dei comunisti e come essi comincino a tradire le loro promesse. Miska Koscievoj, compaesano di Gregorio, è il presidente del comitato rivoluzionario del villaggio e sfoga la sua rabbia sociale e le sue frustrazioni diventando un cinico assassino. Inoltre comincia a farsi sentire la miseria. I rossi requisiscono il grano ai contadini; mancano i beni essenziali. Due chili di sale hanno il valore di un grasso montone. La descrizione di queste privazioni e di come cominci a prendere campo una burocrazia stupida e opprimente assomiglia molto al racconto che l’emigrata russa Alja Rachmanova ha fatto della sua esperienza nel libro “Studenti, amore, Ceka e morte” (Bemporad, 1937). Però tutta la rappresentazione che Šolochov fa degli aspetti negativi del bolscevismo, allora ancora nella fase iniziale, è breve, contenuta e parziale, e in fin dei conti non ha il valore di una denuncia, ma più che altro sembra fatta per avere un titolo di obiettività.
Arrivato alla fine del romanzo, ho pensato che un uomo fiero come Gregorio Melechov, pur avendo rinunciato alla lotta (“le mie braccia vogliono lavoro, ormai, e non armi”), sarebbe certamente finito, appena pochi anni più tardi, sotto la dittatura di Stalin, davanti al plotone di esecuzione. Šolochov prudentemente conclude con il ritorno a casa di Gregorio il suo lungo romanzo, che pure,  con il suo andamento picaresco fatto di decine di incontri casuali  e di brevi racconti secondari, sarebbe potuto andare avanti fino a coprire almeno altri dieci anni di storia. Perciò questa conclusione, benché arrivi come una liberazione dopo duemila pagine, appare strozzata, forzata come un artificioso lieto fine, e credo che mostri l'opportunismo di Šolochov e la sua riluttanza, o quanto meno la sua incapacità, a intravedere, in un'epoca di grandi tragedie, il destino del suo popolo.
E’ interessante ciò che scrive Brian J. Boeck nel suo saggio: che Šolochov modellò le esperienze di Gregorio, nell’ultima parte del libro, sulla vita di un cosacco di nome Harlampii Yermakov. Dopo aver guidato una ribellione cosacca nel 1919, Yermakov fu catturato dalle autorità sovietiche nel 1920. Entrò, per riscattarsi, nei ranghi della cavalleria rossa combattendo contro gli ultimi eserciti controrivoluzionari operanti in Russia. Ritornò a casa a metà degli anni Venti. Fu arrestato nel 1927 con una accusa di complotto antisovietico e fucilato.
Considerazioni politiche a parte, Il placido Don è un grande romanzo ottocentesco scritto con un realismo minuziosamente descrittivo, a volte  molto crudele, altre volte dispersivo per eccesso di dettagli, con innumerevoli  e lunghe pause di lirico amore  per la natura. 
“Dietro alle case, le violacee ombre del crepuscolo si stendevano sulla steppa; era quell’ora vespertina in cui contorni e colori sembrano svaporare, quando la luce del giorno ondeggia stretta e confusa a quella della notte, e tutto appare irreale, fiabesco e chimerico; persino gli odori, in quest’ora, perdono d’intensità  e acquistano gradazioni proprie, speciali e tenui”.

Šolochov ha anche una grande attenzione per tutti gli animali e una sincera compassione per i cavalli:
“Alcuni carri, gremiti di feriti gravi, si muovevano a stento. Le brenne che li tiravano erano magre da far spavento. Tiravano i carri con tale sforzo che i musi coperti di schiuma per poco non toccavano il fango” .

I paragoni sono infiniti e quasi sempre molto riusciti, con immagini semplici, rustiche ed efficaci. 
Un uomo “basso di statura e tarchiato, che pareva un sacco di farina”.
Mi è piaciuta molto anche questa descrizione, che mi sembra l’unica ispirata da una sottile sensibilità moderna:
“Sul marciapiede si adagiavano pigramente le ombre verde-olivastro delle tende di grossa tela tese sugli ingressi dei negozi e dei caffè. Il vento faceva ondeggiare la tela sbiadita e le ombre sul marciapiede si muovevano, come se volessero fuggire da sotto i piedi della gente”.
Per finire, un pensiero riconoscente ai traduttori, Maria Rascowska ed Ettore Fabietti.

1 commento:

francesca ha detto...

Commovente e bravo!