Questa edizione del Placido Don (quattro volumi
rilegati in un robusto e colorato cofanetto) fu acquistata da mio padre nel
1958, assieme ad altre pubblicazioni della casa editrice del partito comunista.
Mio padre le comprò solo per assolvere nei confronti del partito a un dovere di
iscritto. Per quasi quarant’anni quei libri rimasero su uno scaffale senza che nessuno
nemmeno li sfogliasse. Successivamente
hanno riposato indisturbati per altri venticinque anni sui palchetti di casa mia.
Dunque erano più di sessant’anni che Il placido Don, entrato nella mia famiglia
quando ero ancora ragazzo, attendeva di essere letto; e quando mi sono messo a
questa impresa, qualche settimana fa, ho provato il piacevole sentimento di riparare a una mancanza.
Poiché già a metà degli anni Sessanta io non ero
più un comunista ortodosso, la fama di Šolochov di essere stato uno stalinista
e un sostenitore ossequioso del potere sovietico aveva spento ogni possibile
interesse per la sua opera.
Inoltre il suo nome è stato in questi decenni, per
quel che ne so, completamente assente dal dibattito culturale della sinistra e
dagli interessi dei critici letterari che costituivano un riferimento e un
esempio. Tanto è vero che su Šolochov c’è in italiano pochissima bibliografia,
nessuno studio, solo qualche articolo e poche pagine contenute in storie
letterarie che, al momento, sono per me irreperibili. Nemmeno il recente saggio di Brian J. Boeck (“Stalin’s
scribe: literature, ambition, and survival: the life of Mikhail Sholokhov”) è
stato tradotto in Italia, probabilmente
per la mancanza di un pubblico interessato.
Perciò ho affrontato la lettura del Placido
Don senza conoscere i giudizi della critica e piuttosto prevenuto nei confronti di Šolochov a causa della sua carriera politica e, oso dirlo, della sua faccia antipatica, ma con la
curiosità di conoscere finalmente quest’opera sterminata di oltre duemila
pagine.
La lettura è stata nel complesso molto piacevole.
Un lungo viaggio nella steppa, da un villaggio all’altro, con lunghe soste
nelle case dei contadini cosacchi, rappresentati in modo vivace e realistico,
con il loro linguaggio schietto espressivo e volgare. E la guerra: prima contro i
tedeschi, poi fra cosacchi insorti e truppe bolsceviche. Il racconto di
Šolochov è abbastanza equilibrato fra le
ragioni degli insorti e quelle dei bolscevichi. Benché alla fine l'Autore porti l’insorto
Gregorio Melechov, dopo tante avventure e peripezie spesso squallide e
deprimenti, a rinunciare a combattere facendogli gettare nel fiume fucile pistola e cartucce, decretando in questo modo, di fatto, la supremazia del potere sovietico, Šolochov mostra, però, anche l’ottusa ferocia dei comunisti e
come essi comincino a tradire le loro promesse. Miska Koscievoj, compaesano di
Gregorio, è il presidente del comitato rivoluzionario del villaggio e sfoga la
sua rabbia sociale e le sue frustrazioni diventando un cinico assassino. Inoltre comincia a farsi sentire la miseria. I rossi requisiscono il grano ai contadini;
mancano i beni essenziali. Due chili di sale hanno il valore di un grasso montone. La
descrizione di queste privazioni e di come cominci a prendere campo una
burocrazia stupida e opprimente assomiglia molto al racconto che l’emigrata
russa Alja Rachmanova ha fatto della sua esperienza nel libro “Studenti, amore, Ceka e morte”
(Bemporad, 1937). Però tutta la rappresentazione che Šolochov fa degli aspetti negativi del
bolscevismo, allora ancora nella fase iniziale, è breve, contenuta e parziale,
e in fin dei conti non ha il valore di una denuncia, ma più che altro sembra
fatta per avere un titolo di obiettività.
Arrivato alla fine del romanzo, ho pensato che un uomo
fiero come Gregorio Melechov, pur avendo rinunciato alla lotta (“le mie braccia
vogliono lavoro, ormai, e non armi”), sarebbe certamente finito, appena pochi anni più tardi, sotto la dittatura di Stalin, davanti al plotone di esecuzione. Šolochov prudentemente
conclude con il ritorno a casa di Gregorio il suo lungo romanzo, che pure, con il suo andamento picaresco fatto di
decine di incontri casuali e di brevi racconti secondari, sarebbe potuto andare avanti fino a coprire almeno altri dieci anni di storia. Perciò questa
conclusione, benché arrivi come una liberazione dopo duemila pagine, appare strozzata, forzata come un artificioso lieto fine, e
credo che mostri l'opportunismo di
Šolochov e la sua riluttanza, o quanto meno la sua incapacità, a intravedere, in un'epoca di grandi tragedie, il destino
del suo popolo.
E’ interessante ciò che scrive Brian J. Boeck nel
suo saggio: che Šolochov modellò le esperienze di Gregorio, nell’ultima parte
del libro, sulla vita di un cosacco di nome Harlampii Yermakov. Dopo aver guidato
una ribellione cosacca nel 1919, Yermakov fu catturato dalle autorità
sovietiche nel 1920. Entrò, per riscattarsi, nei ranghi della cavalleria rossa
combattendo contro gli ultimi eserciti controrivoluzionari operanti in Russia.
Ritornò a casa a metà degli anni Venti. Fu arrestato nel 1927 con una accusa di
complotto antisovietico e fucilato.
Considerazioni politiche a parte, Il placido Don è
un grande romanzo ottocentesco scritto con un realismo minuziosamente
descrittivo, a volte molto crudele, altre volte dispersivo per eccesso di dettagli, con innumerevoli e lunghe pause di lirico amore per la natura.
“Dietro alle case, le violacee ombre del crepuscolo si stendevano sulla
steppa; era quell’ora vespertina in cui contorni e colori sembrano svaporare,
quando la luce del giorno ondeggia stretta e confusa a quella della notte, e
tutto appare irreale, fiabesco e chimerico; persino gli odori, in quest’ora,
perdono d’intensità e acquistano
gradazioni proprie, speciali e tenui”.
Šolochov ha anche una grande attenzione per tutti gli animali e una sincera compassione per i cavalli:
“Alcuni carri, gremiti di feriti gravi, si muovevano a stento. Le brenne
che li tiravano erano magre da far spavento. Tiravano i carri con tale sforzo
che i musi coperti di schiuma per poco non toccavano il fango” .
I paragoni sono infiniti e quasi sempre molto riusciti, con immagini semplici, rustiche ed efficaci.
Un uomo “basso di statura e tarchiato, che pareva un sacco di farina”.
Un uomo “basso di statura e tarchiato, che pareva un sacco di farina”.
Mi è piaciuta molto anche questa descrizione, che
mi sembra l’unica ispirata da una sottile sensibilità moderna:
“Sul marciapiede si adagiavano pigramente le ombre verde-olivastro delle
tende di grossa tela tese sugli ingressi dei negozi e dei caffè. Il vento
faceva ondeggiare la tela sbiadita e le ombre sul marciapiede si muovevano,
come se volessero fuggire da sotto i piedi della gente”.
Per finire, un pensiero riconoscente ai traduttori,
Maria Rascowska ed Ettore Fabietti.
1 commento:
Commovente e bravo!
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