domenica 1 gennaio 2012

Una casa un po' museo e un po' presepe con tanti bei libri. - David Magarshack, Cechov. Milano, Rizzoli, 1956.





Da quando ho scoperto, in via dei Pepi, la casa di Giuseppe Ferrini, vado a fargli visita, oltre che per godere della sua compagnia, per sfuggire al degrado della città. Ormai che cosa è diventato il centro di Firenze? Un luogo anonimo e triste, dove i palazzi storici e le belle chiese sembrano scatole vuote offerte all’ammirazione superficiale dei turisti. A casa di Ferrini provo all’incirca il senso di sollievo che si può provare entrando, da una strada trafficata e sporca, in una antica e tranquilla merceria (ce n’è ancora qualcuna), dove scatole piene di bottoni sono appoggiate sui palchetti di legno alle pareti e una gentile signora d’altri tempi misura con gesti calmi, immaginiamo, un metro e mezzo di elastico o di fettuccia bianca.
Ferrini vive in due alte stanze di un vecchio palazzo. Ogni stanza ha un soppalco con una propria piccola scala fissa. In ogni soppalco c’è un ampio letto con una coperta rossa, e Ferrini sceglie in quale letto andare a dormire secondo il capriccio e le stagioni. Le alte e grandi finestre, che sui davanzali interni hanno piante sempreverdi dalle larghe foglie, sono schermate da tende bianche, lunghe fino al pavimento, sulle quali sono sovrapposte delle leggere tende rosse.
Fra le due finestre del salotto troneggia una magnifica credenza, dove sono esposti piatti, tazzine e pupazzetti di ceramica. Sul ripiano della credenza, sotto una campana di vetro, c’è una statuetta della Madonna fatta a Napoli alla fine del Settecento. Alle pareti, copie di quadri religiosi di Correggio e di Guido Cagnacci, vecchi manifesti teatrali, quadri naïf e surreali, specchi con cornici molto lavorate, stampe antiche. Sul pavimento, un grande frammento di un tormentato tronco d’ulivo e una corona e una palla costruite e dorate da Ferrini con pigne di bosco.
Sospese al bordo di uno dei soppalchi, dondolano nell’aria una decina di statuette da presepe: angeli, pastori, magi.
Ferrini è stato per molti anni un accanito appassionato di teatro; spesso intraprendeva lunghi viaggi notturni per assistere ad uno spettacolo a Napoli o a Taormina. In casa ha voluto creare un piccolo mondo modellato dalla sua fantasia, dai suoi ricordi e dai suoi sogni, che però non è un mondo privo di vita e di significato. Lui ci vive bene; e chi entra nella sua casa, subito avvolto dal profumo di brodo caldo che lui ha appena finito di preparare, oppure dall'odore di uno di quei pastoni a base di melanzane e zucchine in cui si è specializzato, si sente immediatamente a proprio agio, come un cardinale nel suo studiolo appartato, e può dedicarsi a frugare fra i libri e i video di opere teatrali che Ferrini ha allineato su due pareti e mezzo del suo studio-salotto.

Ho trovato così (e dove avrei potuto trovarla, se non in una antica casa-teatro?) questa bella rara e sconosciuta biografia di Cechov pubblicata da David Magarshack a Londra nel 1952, quando la moglie di Cechov, Olga Knipper, era ancora in vita, superstite e testimone di un mondo che già allora, sessanta anni fa, era remotissimo.
Il racconto biografico di Magarshack è tutto condotto, con sensibilità e - direi - umiltà, sulle lettere scritte da Cechov ai suoi tanti corrispondenti; perciò il libro è quasi una autobiografia. Le lettere sono straordinarie: mai un briciolo di affettazione, sempre sincere, serie e leggere nello stesso tempo.
Alfredo Polledro, che ha tradotto in modo mirabile tutte le novelle di Cechov, nella Nota all’ultimo volume (‘Anima cara’, B.U.R., 1957) scrive queste commosse parole:
“... con lui un nuovo altissimo poeta, uno dei più delicati, sinceri e forti che il mondo abbia conosciuto, è entrato sempre più profondamente nei nostri cuori, col raro privilegio di suscitarvi non ammirazione soltanto, ma anche affetto e rispetto, come una delle più belle figure umane dell’epoca nostra”.

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