Con tutta la simpatia per lo spirito anti-lirico, caustico e pessimista di Cesare Cases, trovo che il titolone preso in prestito da Ippolito Nievo sia spropositato per questo smilzo libretto. Non si tratta infatti di una vera autobiografia, ma, direi, di un ampio curriculum universitario, la cui lettura, grazie agli incontri con persone più o meno originali e agli aneddoti che ne scaturiscono, è interessante e abbastanza divertente. Il racconto è condotto con un atteggiamento piuttosto arido e frivolo, ma il ricordo di tante morti di parenti, amici e colleghi suscita (certo in modo del tutto involontario) il sentimento della estrema provvisorietà della vita e dell'inesorabilità del tempo che passa. In un punto Cases pare quasi abbandonarsi, dove dice di sentire che la vita gli sta sfuggendo. Nella prefazione afferma di aver scritto il libro "in un periodo in cui non ci vedevo... A chi non ci vede non resta altro che l'autobiografia".
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