Da quando, una quindicina di
anni fa, ho scoperto i libri di Luigi Russo (1892-1961), ho preso a considerarlo
come un maestro. Ho letto le sue opere con grande piacere, sia per la sua penetrazione
psicologica di critico letterario che per il vigore morale di storico della
cultura.
Scrivendo i miei articoletti
o qualche pagina più distesa, ho sempre tenuto presente il magistero di Russo, cercando di immaginare quello
che egli potrebbe pensare dei miei sentimenti e della mia scrittura.
Russo mi è stato profondamente
congeniale e le sue affermazioni mi trovavano già convinto. “Non si può essere
riformatori di un costume, tenendo troppo piacevolmente i piedi immersi in una
deliziosa e tepida poltiglia. La Poesia, come la religione, vuole mente e cuore
puri”, ha scritto in ‘Il tramonto del letterato’.
Sono rimasto, perciò, molto
sorpreso e dispiaciuto, quando ho trovato nel libro di Umberto Serafini
(1916-2005), ‘I libri e il prossimo’, un breve capitolo ('Un ambiguo afascismo') dedicato
a Luigi Russo. Ne riporto qualche frase.
“L’ex normalista (ma rappresentativo di molti
normalisti di quel momento) Luigi Russo, pontefice massimo di letteratura
italiana ‘militante’ e autore dell’Elogio della polemica, non commetteva le
imprudenze filofasciste del povero Giorgio Pasquali, ma doveva pur fare
adottare ancora e, anzi, più largamente una sua antologia italiana nelle scuole
secondarie; aveva dunque bisogno d’inserirvi qualche testo dichiaratamente
fascista. Ecco allora il ‘militante’ Russo istigare il normalista Siro Angeli,
nato da padre socialista in Carnia (nel paesino -500 abitanti- di Cesclans) e
personalmente convertito al fascismo di ‘faccetta nera’ (nonché littore –Napoli
1937- di teatro), a concedergli un suo prodotto littorio, la poesia ‘I veterani’
(dell’Africa Orientale). Era bella e, usata convenientemente, contribuiva a
procurare vendita di libri, un diritto naturale del pontefice. Meno di dieci
anni dopo Russo era un epuratore, un giudice dei peccati fascisti, e Siro
invece si trovava tra coloro che erano costretti a spiegare (con apprezzabile
rispetto di sé, non volevano proprio rinnegare) la loro colpevole buona fede”.
Sulla natura della società di oggi, mi sono
sentito congeniale anche a un altro critico, Alfonso Berardinelli, nato nel 1943, che
mi sembrava severo, acuto e dotato di un grande sentimento della realtà.
Mi ha stupito, però, qualche
anno fa, vedere che scriveva sul giornale di Giuliano Ferrara, Il Foglio.
Confesso che, per una sorta di pigrizia, tendevo a considerare quella
collaborazione solo come un peccato veniale, anche se io non ho riconosciuto
mai a Ferrara alcuna dignità intellettuale e non ho mai comprato il suo
giornale. Mi aveva un po’ rabbonito una considerazione dello stesso Berardinelli:
che Ferrara gli aveva concesso uno spazio garantendogli la libertà di dire
tutto quello che voleva.
Gli articoli di Berardinelli
(che seguo su internet) sono in verità molto interessanti e polemici. Ma la sua
polemica, giusta e sacrosanta, è rivolta soprattutto (mi pare) al detestabile culturame
della sinistra, al vuoto e imbecille conformismo di sinistra o variamente
democratico. E questo non può che far piacere a Ferrara. Il limite della
libertà di Berardinelli è, appunto, che, pur potendo parlare di tutto, non parla, però, di Giuliano Ferrara e della sua parte politica.
Trovo nel libretto di Vittorio Alfieri 'Della tirannide' la convinzione per fare a
Berardinelli questo rimprovero.
“Dico per tanto; che allorchè l’uomo nella tirannide,
mediante il proprio ingegno, vi si trova capace di sentirne tutto il peso, ma
per la mancanza di proprie ed altrui forze vi si trova ad un tempo incapace di
scuoterlo; dee allora un tal uomo, per primo fondamentale precetto star sempre
lontano dal tiranno, da’ suoi satelliti, dagli infami suoi onori, dalle inique
sue cariche, dai vizj, lusinghe, e corruzioni sue, dalle mura terreno ed aria
perfino, che egli respira, e che lo circondano”.
Un tipo di intellettuale diseducativo
e ‘stupido’ è stato l’intellettuale marxista, legato, più che a un indirizzo
culturale, al rachitico sistema di idee di un partito comunista. La critica
letteraria di Lev Trockij non era settaria, e i suoi articoli di letteratura erano
acuti e umani. Ma in generale i critici marxisti hanno trascurato i valori
estetici per giudicare con presunzione e artificio solo se l’arte di un
determinato poeta o scrittore nascesse in un clima reazionario o
progressista, ed eventualmente bocciarla.
Poiché ho sotto mano il suo
libro ‘Servitù e grandezza del cinema’ (Editori riuniti, 1962), porto ad esempio
Umberto Barbaro (1902-1959).
Commentando il film di
Jacques Tati, Le vacanze del signor Hulot, del 1953, Barbaro ne loda la levità
e la spigliatezza e lo definisce ‘gradevole e spassoso’. Si capisce che il film gli
è piaciuto e lo ha divertito. Ma il piacere procurato dal film all’Umberto
Barbaro-spettatore allarma l’Umberto Barbaro-intellettuale organico, il quale
subito prende le distanze dal giudizio positivo seppur generico che aveva
espresso e si impegna con lo spadone di latta dell’ideologia a fare a pezzi il film,
scrivendo una serie di castronerie che sembrano dette per puro dovere d'ufficio.
“Questa caricatura della piccola borghesia è senza affettuosità,
senza comprensione, senza indulgenza: si esercita unicamente sull’ambizione
sciocca dei piccoli borghesi a vivere come gran signori […] E’ giusto fargliene
[al ceto medio] così severamente una colpa? Non credo: e questa severità fa sospettare
che tutte le simpatie del Tati siano per quei gran signori a cui i piccoli
borghesi non possono assomigliare e che non possono imitare se non rendendosi
grotteschi”.
Sembra di leggere la
requisitoria di un pubblico ministero sovietico contro un nemico del popolo.
Si potrebbe pensare che, dopo
il crollo del muro di Berlino, non esistano più intellettuali di una ottusità così
perversa. E invece esistono ancora (ed esisteranno sempre).
Qualche tempo fa parlavo con
una docente di mezza età molto impegnata nell’attività del Partito democratico.
Le dicevo che Marco
Travaglio, sulla base della conoscenza di atti processuali, non credeva all’innocenza
di Adriano Sofri.
La sconsolata risposta fu: “Eh,
ma si sa: Travaglio non è di sinistra”.





