mercoledì 10 dicembre 2014

Intellettuali italiani: Luigi Russo, Alfonso Berardinelli, Umberto Barbaro.



Da quando, una quindicina di anni fa, ho scoperto i libri di Luigi Russo (1892-1961), ho preso a considerarlo come un maestro. Ho letto le sue opere con grande piacere, sia per la sua penetrazione psicologica di critico letterario che per il vigore morale di storico della cultura.
Scrivendo i miei articoletti o qualche pagina più distesa, ho sempre tenuto presente il  magistero di Russo, cercando di immaginare quello che egli potrebbe pensare dei miei sentimenti e della mia scrittura.
Russo mi è stato profondamente congeniale e le sue affermazioni mi trovavano già convinto. “Non si può essere riformatori di un costume, tenendo troppo piacevolmente i piedi immersi in una deliziosa e tepida poltiglia. La Poesia, come la religione, vuole mente e cuore puri”, ha scritto in ‘Il tramonto del letterato’.
Sono rimasto, perciò, molto sorpreso e dispiaciuto, quando ho trovato nel libro di Umberto Serafini (1916-2005), ‘I libri e il prossimo’, un breve capitolo ('Un ambiguo afascismo') dedicato a Luigi Russo. Ne riporto qualche frase.
“L’ex normalista (ma rappresentativo di molti normalisti di quel momento) Luigi Russo, pontefice massimo di letteratura italiana ‘militante’ e autore dell’Elogio della polemica, non commetteva le imprudenze filofasciste del povero Giorgio Pasquali, ma doveva pur fare adottare ancora e, anzi, più largamente una sua antologia italiana nelle scuole secondarie; aveva dunque bisogno d’inserirvi qualche testo dichiaratamente fascista. Ecco allora il ‘militante’ Russo istigare il normalista Siro Angeli, nato da padre socialista in Carnia (nel paesino -500 abitanti- di Cesclans) e personalmente convertito al fascismo di ‘faccetta nera’ (nonché littore –Napoli 1937- di teatro), a concedergli un suo prodotto littorio, la poesia ‘I veterani’ (dell’Africa Orientale). Era bella e, usata convenientemente, contribuiva a procurare vendita di libri, un diritto naturale del pontefice. Meno di dieci anni dopo Russo era un epuratore, un giudice dei peccati fascisti, e Siro invece si trovava tra coloro che erano costretti a spiegare (con apprezzabile rispetto di sé, non volevano proprio rinnegare) la loro colpevole buona fede”.
Sulla natura della società di oggi,  mi sono sentito congeniale anche a un altro critico, Alfonso Berardinelli, nato nel 1943, che mi sembrava severo, acuto e dotato di un grande sentimento della realtà.
Mi ha stupito, però, qualche anno fa, vedere che scriveva sul giornale di Giuliano Ferrara, Il Foglio. Confesso che, per una sorta di pigrizia, tendevo a considerare quella collaborazione solo come un peccato veniale, anche se io non ho riconosciuto mai a Ferrara alcuna dignità intellettuale e non ho mai comprato il suo giornale. Mi aveva un po’ rabbonito una considerazione dello stesso Berardinelli: che Ferrara gli aveva concesso uno spazio garantendogli la libertà di dire tutto quello che voleva.
Gli articoli di Berardinelli (che seguo su internet) sono in verità molto interessanti e polemici. Ma la sua polemica, giusta e sacrosanta, è rivolta soprattutto (mi pare) al detestabile culturame della sinistra, al vuoto e imbecille conformismo di sinistra o variamente democratico. E questo non può che far piacere a Ferrara. Il limite della libertà di Berardinelli è, appunto, che, pur potendo parlare di tutto, non parla, però, di Giuliano Ferrara e della sua parte politica.
Trovo nel libretto di Vittorio Alfieri 'Della tirannide' la convinzione per fare a Berardinelli questo rimprovero.
“Dico per tanto; che allorchè l’uomo nella tirannide, mediante il proprio ingegno, vi si trova capace di sentirne tutto il peso, ma per la mancanza di proprie ed altrui forze vi si trova ad un tempo incapace di scuoterlo; dee allora un tal uomo, per primo fondamentale precetto star sempre lontano dal tiranno, da’ suoi satelliti, dagli infami suoi onori, dalle inique sue cariche, dai vizj, lusinghe, e corruzioni sue, dalle mura terreno ed aria perfino, che egli respira, e che lo circondano”.

Un tipo di intellettuale diseducativo e ‘stupido’ è stato l’intellettuale marxista, legato, più che a un indirizzo culturale, al rachitico sistema di idee di un partito comunista. La critica letteraria di Lev Trockij non era settaria, e i suoi articoli di letteratura erano acuti e umani. Ma in generale i critici marxisti hanno trascurato i valori estetici per giudicare con presunzione e artificio solo se l’arte di un  determinato poeta o scrittore nascesse in un clima reazionario o progressista, ed eventualmente bocciarla.

Poiché ho sotto mano il suo libro ‘Servitù e grandezza del cinema’ (Editori riuniti, 1962), porto ad esempio Umberto Barbaro (1902-1959).

Commentando il film di Jacques Tati, Le vacanze del signor Hulot, del 1953, Barbaro ne loda la levità e la spigliatezza e lo definisce ‘gradevole e spassoso’. Si capisce che il film gli è piaciuto e lo ha divertito. Ma il piacere procurato dal film all’Umberto Barbaro-spettatore allarma l’Umberto Barbaro-intellettuale organico, il quale subito prende le distanze dal giudizio positivo seppur generico che aveva espresso e si impegna con lo spadone di latta dell’ideologia a fare a pezzi il film, scrivendo una serie di castronerie che sembrano dette per puro dovere d'ufficio.

“Questa caricatura della piccola borghesia è senza affettuosità, senza comprensione, senza indulgenza: si esercita unicamente sull’ambizione sciocca dei piccoli borghesi a vivere come gran signori […] E’ giusto fargliene [al ceto medio] così severamente una colpa? Non credo: e questa severità fa sospettare che tutte le simpatie del Tati siano per quei gran signori a cui i piccoli borghesi non possono assomigliare e che non possono imitare se non rendendosi grotteschi”.

Sembra di leggere la requisitoria di un pubblico ministero sovietico contro un nemico del popolo.

Si potrebbe pensare che, dopo il crollo del muro di Berlino, non esistano più intellettuali di una ottusità così perversa. E invece esistono ancora (ed esisteranno sempre).

Qualche tempo fa parlavo con una docente di mezza età molto impegnata nell’attività del Partito democratico.  

Le dicevo che Marco Travaglio, sulla base della conoscenza di atti processuali, non credeva all’innocenza di Adriano Sofri.

La sconsolata risposta fu: “Eh, ma si sa: Travaglio non è di sinistra”.

domenica 26 ottobre 2014

Matteo Renzi è l'ultima incarnazione dell'italiano di Alberto Sordi.




Mi è capitata sotto gli occhi una foto di Matteo Renzi che mi ha fatto capire più a fondo la natura del personaggio. Fino a quel momento l’avevo sempre visto ridere o sorridere in modo ammiccante e sempre con espressioni enfatiche di soddisfazione. Non l'ho mai trovato nemmeno lontanamente attraente o anche solo simpatico, però quella perenne espressione di autocompiacimento poteva anche far supporre una consapevolezza di sé solida e, chissà, forse fondata. Invece, nella strana foto di cui parlo, Renzi perde per un attimo lo sguardo diritto di chi si rivolge agli altri con immediatezza, e si guarda intorno con lo sguardo obliquo e, direi, “di riporto” di chi cerca solo di vedere che impressione gli altri possono avere di lui. Ho avuto subito la sensazione di trovarmi di fronte al personaggio interpretato in tanti film da Alberto Sordi: quel tipo d’italiano velleitario e fanfarone che,  quando sente che la sua inettitudine è scoperta, comincia a roteare intorno uno sguardo molle e incerto in cerca di giustificazioni e di scappatoie.  Del resto, proprio come Renzi, anche l’italiano di Alberto Sordi, al suo debutto in una carriera qualsiasi (attore, vigile urbano, imprenditore…), quando gli arride un iniziale successo perché riesce ancora a convincere i più, porta stampata sul viso una espressione esagerata di soddisfatto ottimismo. Renzi è nella fase iniziale della sua vita politica e può ancora credere di avere ottimi motivi per ridere sempre, ma io penso che, quando la realtà dei fatti avrà rivelato a pieno, dietro gli atteggiamenti da avanspettacolo, tutta la sua piccolezza di uomo di governo, anche lui comincerà a roteare gli occhi in cerca di giustificazioni e di scappatoie. Questo genere di cambiamento è testimoniato da Machiavelli.
"... gli uomini grandi sono sempre in ogni fortuna quelli medesimi; e se la varia, ora con esaltarli ora con opprimerli, quegli non variano, ma tengono sempre lo animo fermo... Altrimenti si governano gli uomini deboli: perché invaniscono e inebriano nella buona fortuna, attribuendo tutto il bene che gli hanno a quella virtù che non conobbono mai. Donde nasce che diventano insopportabili e odiosi... Da che poi depende la subita variazione della sorte, la quale come veggono in viso, caggiono subito nell'altro difetto, e diventano vili e abietti".

domenica 5 ottobre 2014

I vivi e i morti: passato e presente. François-René de Chateaubriand, Mémoires d'Outre-Tombe.

Alcuni libri dei Mémoires d'Outre-Tombe sono stati tradotti in italiano da Orsola Nemi e pubblicati dall'editore Sansoni nel 1981 con il titolo "Napoleone".  La citazione che segue, che mi sembra la più bella, proviene da quel volume:
"Nessuno sa crearsi, come me, una compagnia reale evocando le ombre; tanto la vita dei miei ricordi assorbe in sé il sentimento della vita reale. Le stesse persone delle quali mai mi sono occupato, se muoiono, invadono la mia memoria; si direbbe che nessuno mi può divenire compagno se non è passato attraverso la tomba [...] Dove gli altri trovano una eterna separazione, io trovo una riunione eterna; se uno dei miei amici abbandona la terra, è come se venisse ad abitare il mio focolare; non mi lascia più. A misura che il mondo presente si ritira, il mondo passato torna verso di me. Se le odierne generazioni disdegnano le generazioni invecchiate, ci rimettono le spese del loro disprezzo per quanto mi riguarda: non mi accorgo nemmeno della loro esistenza".
Su Napoleone, di cui parla molto diffusamente sia dal punto di vista psicologico che storico, i giudizi di Chateaubriand sono interessanti e acuti e, credo, tuttora validi. Quello che segue mi sembra un giudizio riassuntivo di grande respiro.
Napoleone "forse avrebbe ancora sconvolto il mondo, se, affrancando la patria, avesse saputo risolversi a chiamare all'indipendenza le nazioni straniere. Il momento era propizio: i re, che avevano promesso ai sudditi un governo costituzionale, avevano mancato vergognosamente alla parola data. Ma la libertà era antipatica a Napoleone da quando aveva bevuto alla coppa del potere; preferiva essere vinto coi soldati che essere vincitore coi popoli" (pag. 321).

mercoledì 24 settembre 2014

Trasformismo: in Italia "tutto scorre ma niente cambia". Fanfaronate italiche, da Galeazzo Ciano (Diario 1939-1943. Rizzoli, 1968) a Matteo Renzi.



Il libro di Ciano, genero di Mussolini, ministro degli esteri in anni cruciali, fatto condannare a morte dal Duce per aver votato l’ordine del giorno Grandi nella riunione del Gran Consiglio del 25 luglio 1943, è molto interessante e perfino avvincente.
Non l’ho letto per interesse storico, ma per curiosità psicologica. Volevo conoscere dall’interno del loro mondo politico i dirigenti e i burocrati fascisti di quel tempo, a cominciare da Mussolini.
Ciano nel suo diario non appare un uomo antipatico. E’ acuto nel giudicare il servilismo e l’incompetenza dei suoi colleghi ministri e dirigenti di partito, di generali e ambasciatori, e ha un fondo di buon senso e di umanità che gli consente di annotare con stupore tante affermazioni strampalate di Mussolini. Gli mancano però delle doti fondamentali di carattere e di indipendenza morale, per cui spesso cede all’enfasi e alla fatuità, cade in contraddizioni e superficialità, e nella vita reale appoggia iniziative “eroiche” che nell’intimità del suo diario contesta.
Un piccolo esempio. Pur conoscendo benissimo la situazione disastrosa dell’esercito italiano (è il generale Giacomo Carboni che lo informa ripetutamente, a cominciare dal 2 maggio 1939), promette al ministro di Bulgaria, il 29 maggio, che l’Italia colmerà le lacune della preparazione militare di quel paese.
In Italia il dato costante della politica delle nostre classi dirigenti, di qualsiasi colore siano (nere, bianche o rosse), non è tanto la povertà dei mezzi, quanto il cialtronesco pressappochismo e la colpevole indifferenza alla buona organizzazione.
Il 5 settembre 1939 Ciano scrive: “Il Generale Carboni fa un quadro molto nero delle condizioni della nostra preparazione militare: scarsi mezzi, disordine nei comandi, demoralizzazione nella massa”.
Ciononostante Mussolini “si propone di scrivere una lettera a Hitler per dirgli che, allo stato degli atti, l’Italia rappresenta per la Germania una riserva economica e morale, ma che in seguito potrà anche giocare un ruolo militare” (25 ottobre 1939).
E il 21 dicembre il Duce ha il coraggio di dire “che non avrebbe mai permesso una sconfitta della Germania”; mentre il 5 marzo 1940 dichiara: “Non appena sarò pronto, farò pentire gli inglesi. Il mio intervento in guerra significa la loro sconfitta”.
E’ passato ormai un tempo così lungo dalla tragedia della guerra, che verrebbe quasi da ridere di queste ignobili fanfaronate, se non ce lo impedisse il fatto che la storia si ripete. “La storia non è magistra / di niente che ci riguardi”, ha scritto Montale. E’ buona tutt’al più per coltivare, consolare o anche angosciare l’animo di singoli individui, ma certo non a illuminare il cammino di una nazione.
Le fanfaronate di Mussolini e le sue frasi ad effetto, che vorrebbero essere sentenziose e sono soltanto sonore buffonerie, non ci hanno purtroppo per niente vaccinato contro le fanfaronate e i vuoti slogan dei politici che sono venuti dopo. Le fanfaronate recenti sembrano  avere, anzi, una accresciuta capacità di influenzare la gente, troppo stordita e disorientata da decenni di televisione, di propaganda bugiarda e di pubblicità martellante .
Lo sfondo delle fanfaronate di Mussolini era la cupa tragedia della guerra, lo sfondo delle fanfaronate attuali è una crisi economica politica e culturale di dimensioni drammatiche.
Oltre a quelle già citate, ecco alcune altre frasi di Mussolini annotate da Ciano: “Nella lotta tra le forze della conservazione e quelle della rivoluzione sono sempre queste ultime che vincono”,1 maggio 1940;
“Le Chiese non hanno bisogno di rame (il Duce voleva requisire anche gli arredi sacri), bensì di fede. E di fede ormai ce n’è poca. Il cattolicesimo ha il torto di pretendere troppa credulità da parte dell’uomo moderno”, 21 febbraio 1940.
“Bastano le sette città della Romagna per fare fuori contemporaneamente Re e Papa”, 12 maggio 1940.
“Bisogna che la gente sappia che la vita è una cosa seria e che la guerra è la cosa più seria della vita”, 10 gennaio 1941.
Venendo all’attualità e a Matteo Renzi (de te fabula narratur), per trovare una somiglianza fra le sue fanfaronate e quelle del Duce, non c’è bisogno di immaginare una simpatia renziana per la figura di Mussolini o che egli si sia anche solo vagamente proposto di imitarne lo stile.  Credo anzi che lo conosca appena: con il suo superattivismo,  Renzi non deve aver avuto né tempo né calma sufficiente per studiare. E’ vero che ha detto: “i valori della cultura fanno di noi una superpotenza mondiale”, ma lui voleva semplicemente farsi bello di un patrimonio artistico che l’Italia di oggi, senza alcun merito, ha ereditato dai secoli passati, e non alludeva all'essenza di pensiero critico che la cultura possiede, e che Renzi, appena apre bocca, mostra di non sapere nemmeno cosa sia.
Renzi dunque non ha bisogno di imitare nessuno, è un prodotto diretto e spontaneo, un figlio genuino e arciconvinto  di questa nostra epoca in cui tutto, anche la bruttezza e l’ignoranza, diventa spettacolo per un pubblico più vasto possibile.  In questo spettacolo, l’ignoranza, per esempio, come molte altre caratteristiche negative, non è un disvalore, ma diventa anzi un titolo di merito e un vantaggio. Però è essenziale essere orgogliosi e fieri della propria ignoranza con disinvoltura e convinzione. E’ essenziale rivendicarla come una dote di semplicità e realismo che si contrappone con coraggio alle esitazioni e ai dubbi di coloro (sgobboni!) che studiano, riflettono e vedono i problemi.

Il modo sprezzante e la varietà di appellativi beffardi con cui Renzi tratta i “professoroni” ricordano Ferdinando II di Borbone re delle Due Sicilie, descritto da Luigi Settembrini nelle sue Ricordanze: egli era ignorante, non leggeva mai libro, scriveva con molti errori di ortografia… non credeva virtù in altri, ne beffava il sapere, rideva dell’ingegno, non pregiava che la furbizia, chiunque sapesse leggere e scrivere era suo nemico ed egli lo chiamava ‘pennaiuolo’; si circondò degli uomini più ignoranti”.
La natura di Renzi è una natura fatta per lo spettacolo, per svolgersi e realizzarsi davanti a un pubblico da conquistare e egemonizzare. Per questo egli sembra essere sempre in uno stato di sovreccitazione, avido e felice di essere guardato, attento e studiato nel mostrarsi. Mi riesce impossibile immaginare che Renzi faccia qualcosa solo per se stesso, cioè per un piacere intellettuale o per una soddisfazione morale che rimangano intimi e non comunicati a nessuno. Pascal ha scritto che il dramma morale dell’uomo moderno nasce dal fatto che egli non è capace di restare chiuso da solo in una stanza a pensare. Renzi è al 100% quell’uomo descritto da Pascal, incapace di stare da solo in una stanza a riflettere anche soltanto per mezza giornata. Se Renzi vi fosse proprio costretto, starebbe con televisione radio e computer accesi, e tutti i giocattoli della sofisticata tecnologia a portata di mano.
Va bene, si dirà, ma un politico, un giovane che abbia vocazione alla politica non è né deve essere un filosofo contemplativo che ami star chiuso in una stanza. Ma non è vero. I grandi politici non sono stati uomini che si sentivano grandi e sicuri di sé solo quando sapevano conquistare il consenso del pubblico, ma erano uomini saldi in se stessi anche nei momenti di solitudine e di isolamento. Si può partire da Giulio Cesare e Marco Aurelio e arrivare a Winston Churchill, Charles De Gaulle, Lev Trockij.
Quando Renzi avrà dimostrato la sua incapacità di risolvere i problemi concreti, e  anche i suoi sostenitori avranno cominciato ad accorgersi che le sue sentenze sono slogan pubblicitari e le sue brillanti battute solo giochi di parole, cosa rimarrà del “grande comunicatore”? Un politico-attore senza pubblico e senza scritture. Allora, forse, dopo aver trasformato la politica italiana in un grande spettacolo di varietà, potrà finalmente diventare davvero un brillante presentatore televisivo, ridimensionato su programmi della sua misura.
Sic transit gloria mundi.

lunedì 8 settembre 2014

La noia della bontà: Carlo Dickens, Nicola Nickleby, Rizzoli (B.U.R.), 1962.



Leggere Dickens è come salire, in un vasto luna-park, su un trenino che esplori i mondi, riuniti sotto un grande tendone, della Casa delle streghe e della Casa delle fate. Il risultato di questa mescolanza non è il mondo reale, però gli assomiglia, benché le sue caratteristiche siano molto esagerate. Quelle buone sono sublimate, quelle cattive sono inasprite. In “Nicola Nickleby” i rappresentanti più qualificati del mondo delle streghe sono Ralph Nickleby, zio del protagonista, usuraio e losco uomo d’affari, e il brutto e guercio professor Squeers, direttore di un collegio dove i ragazzi sono maltrattati come in un campo di concentramento. I rappresentanti del mondo delle fate sono, invece, i fratelli gemelli Charles e Ted Cheeryble, buoni, inconsistenti e noiosi come angeli custodi.
Di questo romanzone, che nella edizione della B.U.R. conta 940 pagine, mi sono piaciute poche cose, però sono ammirato di una narrazione che si sviluppa con l’impeto di una valanga e raccoglie e ingloba tutto quello che incontra o che sfiora, anche le pietruzze e i fuscelli. A pagina 776, per esempio, Dickens per concludere un filone men che secondario della storia principale (gli infiniti incontri ed episodi di questo romanzo picaresco non sono mai lasciati in sospeso, ma alla fine vengono tutti portati a una conclusione), accompagna la piccola Morleena Kenwigs, un personaggio del tutto marginale, dal parrucchiere, dove avverrà un ‘miracoloso’ incontro con il prozio, signor Lillyvick, altro personaggio marginale. Prima che avvenga questo importante riconoscimento, però, Dickens ci dice tutto su quel negozio di parrucchiere, che descrive per una pagina e mezza. Dickens è così: non tralascia niente. A pagina 542, di un personaggio che nel romanzo appare brevemente solo due volte senza mai aprir bocca, la sorella di Tim Linkinwater, Dickens ci racconta per una intera pagina tutti i problemi che aveva avuto nel ritrovamento di una cuffia. La passione descrittiva di Dickens è genuina, non è l’espediente meccanico che  uno scrittore di romanzi d’appendice usa per intrattenere il pubblico. O almeno non è solo questo.  Nelle sue descrizioni particolareggiatissime c’è il gusto divertito e appassionato di cogliere nella loro verità i singoli gesti e momenti della vita quotidiana, però l’esito artistico (umoristico o di riflessione morale) è raggiunto raramente. Alla signora Nickleby, per esempio,  madre di Nicholas, donna simpaticamente svampita che parla a ruota libera e spesso a vànvera, Dickens dà troppo spazio, e i suoi infiniti e lunghi sproloqui spesso annoiano.
Non c’è bisogno che io parli dei difetti cronici di Dickens, il sentimentalismo e il provvidenzialismo, che sono atteggiamenti conosciuti e studiati. Per risolvere tutte le situazioni drammatiche che non abbiano la possibilità di uno sviluppo felice naturale e spontaneo, Dickens inventa con disinvoltura incontri provvidenziali con personaggi che portano soluzioni miracolose.
Mi è sembrata eccezionalmente acuta, degna di un grande moralista, la descrizione che Dickens, appena ventiseienne, fa del primo incontro fra Nicholas e suo zio Ralph: “Il volto del vecchio era severo, duro e repulsivo; quello del giovane aperto, bello e ingenuo. L’occhio del vecchio era lampeggiante del bagliore dell’avarizia e dell’astuzia; quello del giovane sfavillante della luce dell’intelligenza e dello spirito. […] c’era nel suo sguardo e nel suo portamento qualcosa che emanava da quel giovane cuore ardente e che umiliava il vecchio. […] Ralph ne fu ferito fino alle radici più profonde del cuore e da quel momento odiò Nicola”.
Uno dei punti più alti del romanzo, dove Dickens manifesta la grande arte che svilupperà in opere più compiute (per esempio, “Il nostro comune amico”), è il colloquio fra l’onorevole Gregsbury e Nicholas, che gli si offre come segretario. Gregsbury è un mediocre politico che difende i suoi privilegi e con un lungo e spudorato discorso (“… Lei deve sempre tenere bene in mente di esprimersi con molto calore a proposito del popolo, perché rende molto all’epoca delle elezioni… ”) istruisce Nicholas su come aiutarlo in questo compito. Ma Nicholas rifiuterà l’incarico.
Altra vetta artistica è la descrizione del servile snobismo del signor Wititterley e di sua moglie di fronte a due aristocratici  capitati in casa loro solo per insidiare la dama di compagnia. “Eccellenza,” disse il signor Wititterley, “sono felice… onorato… orgoglioso. Si rimetta a sedere, eccellenza, la prego. Sono davvero onorato, onoratissimo”. Mentre Wititterley diceva tutto questo, la moglie provava in cuor suo un gran fastidio poiché, pur scoppiando di orgoglio e di arroganza, avrebbe voluto far credere agli illustri ospiti che la loro visita era proprio un fatto comune e che essi ricevevano lord e baronetti ogni giorno della settimana”.
La ‘valanga narrativa’ di Dickens non trascura nemmeno i minimi particolari poetici. Sir Mulberry Hawk uccide in duello lord Frederick Verisopht. Il corpo del povero lord è disteso su un prato.  “Tutta la luce e l’animazione del giorno si intensificavano. E in mezzo a tutto ciò, giaceva il morto, col volto irrigidito e fisso rivolto al cielo, premendo l’erba di cui ogni filo alimentava molte piccole vite”.