lunedì 31 marzo 2014

Miracoli: l'architetto Renzo Piano dice di sapere come salvare le periferie delle nostre città. 3^ puntata.

La mia opinione è che Renzo Piano sia, proprio lui! un creatore di periferie, un progettista di periferie e che egli sappia solo pensare in modo “periferico”. Non ci sarebbe bisogno, per convincersene, di leggere lo splendido libro di Hans Sedlmayr, Perdita del centro, (tradotto in italiano nel 1967); basta leggere i dilettanteschi concetti che lo stesso Piano ha espresso in un articolo sul Corriere della Sera del 9 agosto 2000 (“Il pericolo è il mio mestiere”) per rispondere ad alcune critiche fatte da Leonardo Benevolo, storico dell’architettura.
“Io credo che il mestiere dell' architetto sia un mestiere inevitabilmente pericoloso. È un mestiere in cui basta respirare che si corre un rischio. A meno di non trattenere il respiro: ma allora che vita è? L' architettura è avventura, è esplorazione. In tutti i sensi. Sociale, scientifico, storico, espressivo. L' architetto è esploratore, ed è anche topografo, geografo, antropologo, storico, artista. E se l' architettura è avventura allora è anche sbagliare il percorso, e far retromarcia. Il rischio va affrontato. Se vuoi essere sicuro vai sulla strada maestra: è spesso asfaltata ma anche di banalità e di accademia. Sono un imprudente? Sono incauto? Sono uno scapestrato? Meglio scapestrato che paralitico. Che virtù è la prudenza (quella che fa misurare con alchimistica precisione tutti i rischi) in un mestiere che dovrebbe inventarsi il futuro?”.
Se queste idee le dichiarasse un politico, già mi preoccuperebbero non poco, ma dette da un architetto che costruisce torri alte 310 metri mi spaventano. Lo spirito d’avventura, i tentativi e le esplorazioni di un architetto devono dunque esercitarsi a spese della gente, la quale dovrebbe avere completa fiducia solo sul grande estro del maestro? Ma lo spirito d’avventura e la brama di novità, pur legittimi, di codesti artisti da quali contrappesi sono bilanciati?
“Il vero futuro, ha scritto Friedrich Schelling, può essere soltanto il risultato comune della potenza distruttrice e di quella conservatrice. Appunto per questo non gli spiriti deboli, trascinati da qualunque vangelo di una nuova epoca, ma gli spiriti forti, fedeli insieme al passato, sono in grado di dare origine al vero futuro”.
Invece questi architetti moderni sono “ nomadi del bello, [che] sono usciti inosservati dal regno dell’umanesimo e stanno ora vagando chissà dove” (Vjačeslav Ivanov, filosofo russo-italiano, morto a Roma nel 1949).
Se si legge ciò che disse Renzo Piano al giornale La Stampa in una intervista del 5 luglio 2012, in occasione dell’inaugurazione della sua Shard Tower londinese, si può constatare che il suo spirito  umanistico è davvero debole e che egli, più che un nomade del bello, è un nomade degli strani e inutili primati.
Infatti non trova di meglio da dire sulla sua costruzione che c’è anche "una galleria panoramica che consente di inseguire l'orizzonte a 360 gradi per sessanta chilometri. E anche una meditation room, all'ottantesimo piano. La stanza più alta d'Europa".
Chissà come ci sarebbe stato bene e quali capolavori avrebbe scritto, in quell’alto pensatoio, Tommaso Campanella, che invece fu costretto a passare da prigioniero quattro anni, dal 1604 al 1608, in una fossa cieca e umida del Castel Sant’Elmo, a Napoli, e a scrivere in così basso loco le sue sofferte poesie!
In un altro libro di Sedlmayr (La rivoluzione dell'arte moderna, 1955) c'è un passo che mi pare definisca bene l'attività di un architetto come Renzo Piano.
L'autore critica e afferma di volersi tenere lontano "dall'atmosfera di un mondo, che si era stretto in congiura per smentire le previsioni più fosche col suo ottimismo voluto, tanto sfacciato quanto impotente; con la sua tolleranza, più noncurante e scettica che in ogni altro tempo; con la sua tendenza ad assaggiare ogni cosa, a condizione che tutto, prima, avesse perduto ogni forza probante e ogni rigore di responsabilità; con la sua fregola dilettantesca di artificiosi esotismi, di meccanicismo inanimato", ecc. ecc.


domenica 30 marzo 2014

Miracoli: l'architetto Renzo Piano dice di sapere come salvare le periferie delle nostre città. 2^ puntata.



Nella medesima intervista Renzo Piano fa delle dichiarazioni che sembrano, anch’esse, da ragionier Brambilla. A proposito della sua nomina a senatore a vita, dopo aver detto che “il presidente Napolitano è una persona che ammiro”, come se Napolitano fosse il megadirettore galattico di Fantozzi,  Piano dichiara con candida presunzione: “Quando Napolitano mi ha chiamato, ho pensato: come senatore potrei impegnarmi a difendere la bellezza del Paese”.
Ma Renzo Piano è proprio sicuro di sapere quale sia la bellezza del paese?
Intanto le sue soluzioni per salvare le periferie (“portiamoci tribunali, biblioteche, ospedali, teatri, ecc.”) costituiscono una rivoluzione del tutto astratta, perché realizzabile solo in un progetto a tavolino. Inoltre, se anche questa astratta rivoluzione ("mettiamo questo là, spostiamo quello qua") si potesse per miracolo realizzare, lascerebbe le periferie tali e quali, senza risolverne i problemi veri.
Già negli anni Trenta  Lewis Mumford, urbanista e sociologo mite e profondo, aveva scritto che “i progressi urbanistici non sono il prodotto di piccole riforme limitate: il compito dell’urbanistica implica il più vasto compito di una riforma della nostra civiltà. Noi dobbiamo trasformare i modi parassitari e briganteschi di vita che oggi purtroppo predominano” (La cultura delle città, Milano 1954)
Il nuovo palazzo di giustizia di Firenze (a parte la notevole bruttezza) ha forse, grazie alla sua specifica funzione, reso il quartiere di Novoli un po’ meno periferia?
E l’ospedale di Torregalli, al confine fra Firenze e Scandicci, benché debba anch’esso farsi perdonare la sua bruttezza, ha, sì, offerto ai rioni circostanti, l’indubbia comodità di avere un ospedale vicino, ma tutta l’ampia zona che vi gravita intorno continua ad avere, come prima, le caratteristiche della periferia, cioè trasporti pubblici scadenti e  un ambiente crudo, sregolato, con una vita sociale ristretta, angusta e delusiva” (Mumford).
Dove, poi, arrivano i grandi supermercati e i centri commerciali, che nascono da per tutto come funghi, intorno cresce il deserto e tutto diventa periferia.
Il simbolo della città è ormai diventato il centro commerciale, che accoglie e subordina a sé molte altre attività, anche culturali. Nella vita della città, che prima aveva il carattere di una sinfonia (Mumford), oggi prevale un solo motivo: vendere, comprare e far soldi. Sembra paradossale, ma anche i centri storici, non avendo quasi più residenti e offrendo solo servizi che soddisfino i turisti, sono diventati periferie. Lo riconosce lo stesso Renzo Piano, che dice, senza però troppa pena e come semplice e quasi indifferente  constatazione: “Ora i centri storici corrono il rischio di trasformarsi in shopping center, in oasi per ricchi”.   
E dunque non bisogna salvare, cioè recuperare ad una dimensione umana, solo le periferie, ma anche i centri storici. Per far questo bisognerebbe  rifondare l’intera città, ripensare il lavoro,  l'effetto deformante della televisione, il significato della scuola e di quell'unica religione che è diventato il tifo per il gioco del calcio. Sarebbe compito degli architetti e degli urbanisti affermare l’essenza umana dell’uomo. Compito che è allegramente tradito. Noi sappiamo bene  che questo compito, per quanto possa essere vasto l’orizzonte della nostra immaginazione,  resterà un’utopia. Però non ce ne affliggiamo troppo, perché questa utopia, la consapevolezza, cioè, che la politica e l’urbanistica dovrebbero avere come scopo il rispetto per l'uomo,  ci dispensa almeno dal perdere tempo con proposte così inadeguate da sembrare giochi di prestigio.
(continua al post successivo)

venerdì 28 marzo 2014

Miracoli: l'architetto Renzo Piano dice di sapere come salvare le periferie delle nostre città (come il personaggio di Giorgio Gaber, che sa trasformare una utilitaria in un'auto da corsa). 1^ puntata.



Su Il Fatto Quotidiano del 17 marzo scorso, le pagine 4 e 5 sono dedicate all’architetto Renzo Piano, da pochi mesi senatore a vita. “E ora salviamo le nostre periferie” è il titolo della lunga intervista.  Renzo Piano dice che ora tocca alle periferie essere salvate, perché lui, con altri amici architetti, negli anni ’70 e ’80 avrebbe già salvato i centri storici.
“Il cuore delle nostre città, dice, era minacciato dalle follie del dopoguerra che radevano al suolo i quartieri storici. E’ stato un successo, perfino troppo”.
Non so di che cosa parli l'architetto. Renzo Piano si sarebbe battuto con successo negli anni ’80 contro le follie del dopoguerra (guerra finita da quarant'anni), quando lo scempio era già stato compiuto da un pezzo? Ma io non mi sono accorto di niente e non ho visto niente.  Andate a vedere, piuttosto, il centro storico di Bari, che fino alla seconda guerra mondiale doveva essere, con i suoi quartieri murattiani, bella come la Barcellona di fine Ottocento. Gli antichi palazzi pieni di balconi con ringhiere splendide sono stati demoliti, per far posto ad orrendi edifici di otto piani, ben prima della nobile battaglia di Renzo Piano.
E che dire della decisione presa simultaneamente da tutte le amministrazioni d’Italia, verso la fine degli anni ’60, di eliminare quasi completamente i tram cittadini, con le loro corsie preferenziali, per aprire le città all'invasione delle automobili private? Fu un ottuso e servile omaggio al mito del progresso e un immenso regalo alle grandi industrie. Solo dopo una cinquantina d'anni si è riscoperto che il tram è un bel giocattolo e, con la stessa sconsideratezza con cui lo si era eliminato, lo si è ora costruito a caro prezzo là dove era superfluo (per es. sulla linea Firenze-Scandicci).
Ma lasciamo andare queste recriminazioni: ora è il momento di salvare le periferie.
La ricetta di Renzo Piano sta tutta in poche righe: “Il primo essenziale passo è portare qui le attività civiche… Bisogna portare nelle periferie le funzioni della città. Prima di tutto le scuole… E poi biblioteche, teatri, musei, ospedali, tribunali”.
Il secondo passo consisterebbe in un “consolidamento strutturale” attraverso  cantieri tolleranti… che non mandino via la gente durante i lavori”.
Terzo punto: “l’adeguamento energetico”.
Quarto punto: “il verde”. 
Ma di verde non ce n'è più in periferia, che è squallida appunto  perché è fitta di brutti palazzoni.
Quinto punto: “le piazze. Oggi o non esistono o sono piuttosto dei vuoti”.
E qui, sulle piazze, Renzo Piano intona una litanìa alla Walter Veltroni: “Bisogna realizzarle e portarci le attività del quartiere, devono essere un luogo dove la gente si incontra e confronta”.
E poi, naturalmente, ci sono “le metropolitane, gli autobus, il car sharing e le piste ciclabili. Bisogna intervenire sulle distanze… Servono processi partecipativi… Occorre ascoltare e accogliere il contributo della gente”.
Che altro si può aggiungere? Propongo distribuzioni periferiche di caramelle ai bambini e fiori alle signore.
Sul giornale, al centro dell’intervista, c’è una foto di Renzo Piano preso di profilo. Mi ha colpito, perché, senza il suo abituale sorriso hollywoodiano (giudico dalle foto su internet),  assomiglia a un qualsiasi ragionier Brambilla.  E del tutto brambillesche sono le soluzioni urbanistiche che propone, che   hanno realisticamente l'efficacia di una cerbottana contro un cacciabombardiere.
Fanno venire in mente l’amico di Giorgio Gaber, nella canzone Il truccamotori, che ha una ricetta infallibile per migliorare le prestazioni dell'automobile:
Lima testata e collettori
cambia marmitta e carburatori
e così con poca spesa il tuo motore ha un’altra resa.

(continua al post successivo)

domenica 16 marzo 2014

Lo scienziato della comunicazione Carlo Freccero studia il bacillo Matteo Renzi.


Carlo Freccero sembra uno scienziato che si entusiasma e si innamora dei bacilli che studia.
Dieci giorni fa, durante una trasmissione televisiva, aveva dato a Matteo Renzi un voto altissimo (dieci e lode) per la capacità di comunicare e uno bassissimo (zero) per i contenuti politici. Inoltre Freccero,  nella recente scenetta dei bambini di una scuola siciliana che si mettono a cantare per la gioia che il presidente Renzi faccia loro una visita, aveva trovato una vaga eco di lontane visite del duce alla gioventù irreggimentata. Nonostante che io abbia una grande diffidenza per questa cosiddetta scienza della comunicazione, che è l’arte non di parlare  all’intelligenza e ai sentimenti delle persone, ma di convincere la gente lusingando i suoi pregiudizi e solleticando  i suoi gusti più triviali, avevo apprezzato i giudizi di Freccero.
A distanza di una sola settimana, ieri l’altro sera, invitato ad  un altro dibattito televisivo su Renzi e le sue squillanti iniziative, Freccero mi ha stupito: più nessuna parola di critica sulla sostanza e una eccitazione puerile per le presunte novità introdotte dal dinamico giovanotto nella tecnica della comunicazione.
Ma ormai sono decenni che siamo esposti a diluvi di pubblicità e di celebri frasi sintetiche ed efficaci (qualcuna la usiamo anche nel nostro linguaggio familiare: ‘metti un tigre nel motore’, ‘ti spunta un fiore in bocca’, ‘chi beve birra campa cent’anni’, ecc.), e qualcosa ne capiamo anche noi. Il linguaggio e il modo di presentarsi di Renzi non fanno che ripetere i vecchi schemi in modo spavaldo, cioè immedesimandosi nella finzione e credendoci totalmente, senza paura di essere ridicolo e caricaturale.
E allora perché, caro Freccero, vedi l’azzurro dove c’è solo  nero?