

Ho cercato molte volte di liberarmi di Repubblica (“coscienza critica del Paese", è stata definita da qualcuno). Dopo qualche giorno di peregrinazione fra altri quotidiani, sono sempre tornato, a malincuore e con dispetto, al giornale di Scalfari. La colpa di queste ricadute è dovuta in parte, naturalmente, all’abitudine, ma soprattutto al fatto che gli altri giornali sono ancora peggiori. Se leggo, sul Corriere della Sera, gli articoli di Angelo Panebianco, Sergio Romano o Francesco Alberoni, vengo risospinto, per reazione, verso le opinioni di Repubblica, che sono, sì, una melassa appiccicosa e ipocrita, però confezionata al gusto ‘democratico e progressista’. Insomma: smettendo di leggere Repubblica, rimango pur sempre impigliato nelle sue posizioni politiche e nell’impossibilità di superarle. Per liberarsi veramente di Repubblica, bisogna leggere Repubblica. Ci si arrabbia, certo, e si stenta a credere ai propri occhi, quando si leggono certe equivoche affermazioni e preferenze politiche e culturali; però, proprio perché ci si arrabbia in presa diretta, si fa meno fatica a districarsi dalle sue ipocrisie e uscirne fuori puliti. La melassa ‘progressista e democratica’, siamo quasi sicuri, non si appiccica sulla nostra pelle. Le prediche, le invocazioni e le benedizioni di Eugenio Scalfari & soci, dopo che abbiamo fatto come lettori parecchi anni di apprendistato, non ci convincono nemmeno un poco e non accendono più in noi nessuna scintilla di pensiero (se non, qualche volta, a contrario). Se ci mettiamo di fronte alle posizioni ambiguamente ‘democratiche’ di Repubblica, essa, come uno specchio deformante, ci rimanda di noi una immagine che non ci piace. Allora, per poter continuare ad aspirare alla personalità spirituale a cui teniamo, dobbiamo rompere questo specchio, con un gesto purificatore di igiene morale e intellettuale. Uno dei motivi per cui ho parlato di ‘melassa democratica’ è che Repubblica ha, nei fatti, il massimo disprezzo verso i propri lettori. In quel giornale le idee vanno solo dall’alto verso il basso: i lettori hanno diritto di esprimersi solo se consentono e fanno da cassa di risonanza alle opinioni della direzione. Solo in questo caso, i titolari delle varie rubriche di posta si mostrano premurosi verso di loro e rispondono con toni accorati. Del resto, questa mancanza di attenzione verso i lettori è perfettamente coerente con l’intera impostazione politica e culturale del giornale: la realtà, se non piace alla direzione, viene ignorata oppure negata o condannata. Viceversa, se piace una chimera senza alcuna base reale, una base di realtà per sostenerla la si inventa di sana pianta. - Barbara Spinelli, giornalista molto autorevole, ha scritto mercoledì 30 marzo un articolo, ‘Lampedusa e la sovranità del panico’, che mi sembra una dimostrazione eloquente di quello che ho appena detto. In sintesi: il problema degli immigrati è un problema ingigantito, se non creato, dalla paura, dall’egoismo e dall’ignoranza. - Ma prima di riportare qualche ampio stralcio dell’articolo della Spinelli, voglio indicare i principali passaggi del solito gioco di squadra che Repubblica sta facendo sul tema ‘immigrazione’. - Eugenio Scalfari, nel suo editoriale di domenica 27 marzo, ‘Gran confusione nei cieli d’Europa’, cita un discorso di Luigi Einaudi pronunciato all’Assemblea Costituente nel 1947. Einaudi avrebbe detto: “Le barriere giovano soltanto a impoverire i popoli, a inferocirli gli uni contro gli altri, a far parlare a ciascuno di essi uno strano e incomprensibile linguaggio, di spazio vitale, di necessità geopolitiche e a far pronunciare ad ognuno di essi esclusive scomuniche contro gli immigrati stranieri, quasi che fossero lebbrosi e quasi che il restringimento feroce d’ogni popolo in se stesso potesse, invece di miseria e malcontento, creare ricchezza e potenza”. - In linea di principio, io trovo giuste e sensate queste opinioni di Einaudi. Quello che mi sembra insensato è il commento di Scalfari: “Parole che sembrano scritte oggi”. Come si può fare con onestà una affermazione del genere, espressa poi con un tono categorico apparentemente ingenuo? Il mondo è tutto cambiato. Le grandezze e la direzione dei flussi migratori sono completamente cambiate. Luigi Einaudi non poteva riferirsi, 64 anni fa, a situazioni paragonabili a quella di oggi. Scalfari, che si vanta di considerare Einaudi un maestro, lo strumentalizza senza scrupoli, con il finto candore dei mistificatori. - Lunedì 28 marzo, Ilvo Diamanti, il ‘telegrafista sociologo’, scrive un articolo, ‘La sindrome dell’assedio nel mondo che non ha più muri’. “Che nostalgia quei muri... Ci difendevano dal comunismo e dalla povertà. [...] Così sale la nostalgia. Del muro e dei confini. Nostalgia. Del tempo in cui i romeni erano comunisti da liberare. [...] Nostalgia. Del Muro che a Sud ci divideva dall’Altro Mondo. Il Terzo. Dall’Africa. [...] D’altronde, gli esuli in fuga dal Nord Africa, diretti verso le nostre coste, sono giovani, spesso giovanissimi. Ci fanno scoprire vecchi. Vulnerabili. Poco tolleranti”. - E questo sarebbe uno scienziato sociale? A me sembra un furbo poeta futurista (tri tri tri / fru fru fru /ihu ihu ihu / uhi uhi uhi! / Il poeta si diverte, / lasciatelo divertire / poveretto, / queste piccole corbellerie / sono il suo diletto. / Cucù rurù). - Sempre sul numero di lunedì 28 marzo, Repubblica riassume con particolare enfasi le parole del presidente Giorgio Napolitano, in visita negli Stati Uniti. Quest’America, che accolse e integrò 4 milioni di figli dell’Italia povera e lontana (avrebbe detto Napolitano), è il modello giusto anche per noi, alle prese con gli sbarchi degli immigrati. Ora, io vorrei sapere dove il presidente Napolitano ha studiato storia e geometria. Primo: una considerazione storica. Non bisogna dimenticare che gli emigranti italiani andavano in un paese enorme, ricchissimo e scarsamente popolato. “L’Italia è grata agli Stati Uniti – dice il capo dello Stato - per le opportunità che ha saputo offrire ai nostri cittadini”. Sì, va bene, ma gli Stati Uniti avevano tanto bisogno di mano d’opera che l’avevano addirittura importata con la forza dall’Africa. Forse, è soprattutto quel governo che dovrebbe essere grato ai cittadini italiani. Secondo: un principio di geometria dei solidi. Può lo spazio di una bottiglia accogliere il contenuto di una damigiana? Se questo ‘accoglimento’ è - come sembra - problematico, allora la sicurezza con cui Napolitano prende gli Stati Uniti a modello è davvero velleitaria, senza base né storica né scientifica: è, cioè, politicamente irreale e annunciatrice di catastrofi. - Nell’articolo ‘Lampedusa e la sovranità del panico’, Barbara Spinelli dà una lezione di morale al popolo italiano. Scrive che da settimane si guarda a quello che accade in Libia attraverso un’unica lente: “nient’altro è per noi visibile se non quello che potremmo patire noi, se i fuggitivi arabi e africani continueranno a imbarcarsi verso le nostre coste”. “Il trauma è nostro monopolio, il mondo è un altrove che impaura e minaccia”. Già queste raffinatezze lessicali sono il biglietto da visita di una gran signora che conosce la realtà solo da lontano e in superficie. - “Sembriamo molto lucidi e pratici, ma questo restringersi della visuale ci rende completamente ciechi: l’altrove mediterraneo resta altrove, solo la nostra quiete di nazione arroccata e aggredita ci interessa. [...] Il mondo è in mutazione, ma noi siamo lì, chiusi in un recinto fatto di ignoranza volontaria”. Ma questa è la predica di un prete, perfetta anche nel particolare di quella gesuitica prima persona plurale: ‘noi’. Se almeno Barbara Spinelli dicesse: gli italiani sono dei vigliacchi egoisti e ignoranti, apprezzerei almeno la chiarezza e il coraggio. “Alla radice della cecità, c’è l’illusione di essere una nazione che ancora può scegliere tra essere multietnica o no”. - No, gentile Barbara Spinelli, lei sbaglia di grosso: non è questo il punto. Ormai - è chiaro e accettato dalla maggior parte degli italiani - siamo da due o tre decenni una nazione multietnica. Il punto vero, direi, è questo: quanto multietnici possiamo diventare? Quanti immigrati possiamo ospitare e integrare? Lei vede un limite alle nostre possibilità di accoglienza oppure le considera illimitate? Il razzismo e l’egoismo, qui, non c’entrano. - Il critico Alfonso Berardinelli, in un breve saggio (che meriterebbe di essere letto per intero) su un libro di Enzesberger, scriveva nel 1993: “Condivido la diffidenza di Enzesberger nei confronti dell’habitus moralizzante e di quella strana alleanza tra i resti della sinistra e il clero... Pensare che la vera soluzione al problema della xenofobia, del cosiddetto razzismo e a ogni genere di male sociale sia l’amore del prossimo, o una sorta di generale e calorosa solidarietà verso gli altri, è un modo poco meno che criminoso di affrontare la questione. Amore e solidarietà non possono essere previsti e prescritti come sentimenti sociali costanti, primari e comuni”. (‘L’eroe che pensa’, 1997). - L’errore fondamentale delle prediche di giornalisti, politici e professori che raccomandano generosità, solidarietà e spirito d’accoglienza come soluzione del problema 'immigrazione', è di credere che l’uomo sia naturalmente buono e possa sviluppare in modo illimitato la nobiltà del proprio animo. Naturalmente io non credo alla sincerità di questi predicatori e sono convinto che essi ostentano una incrollabile fiducia nei grandi valori morali solo per un pigro interessato e irresponsabile conformismo. - Ma voglio rispondere alla fiducia che essi sbandierano nelle infinite risorse morali dell’uomo, come se ci credessero veramente. - Casualmente, ho sul mio tavolo un libro del 1948, ‘L’altra faccia della luna’, di Anonimo, ma scritto da Elena Sikorski. Raccoglie testimonianze di prigionieri polacchi nei gulag sovietici, dopo la spartizione della Polonia fra Hitler e Stalin. Trascrivo parte della pag. 137: “In tutti gli scritti riguardanti queste istituzioni, ho cercato invano l’esempio di un atto di cameratismo e di mutua cortesia fra i prigionieri. Tali sentimenti non esistono e non possono esistere. Solo dopo queste riflessioni è possibile renderci conto di come tutti i sentimenti che pensiamo siano una parte di noi stessi, quali la cortesia, la cordialità, il desiderio di aiutare chi ne ha bisogno, la simpatia, tutta quella minuta rete di cortesie che va dall’offerta di un letto per la notte a quella di una tazza di tè, sono invece altrettanti lussi spirituali permessi dal genere di vita che conduciamo, e non sono affatto aspetti definitivi del nostro carattere, né provano che non si possa divenire più insensibili di una roccia”. E qualche frase della pag. 141: "Ascoltando questo racconto [su una vecchia prigioniera detestata da tutte le sue compagne], in un salotto di Londra, non potei afferrarne subito il senso, come probabilmente non può il lettore di questa pagina. Continuavo a chiedere: 'Ma non sentivate nessuna pietà? Nessuna, assolutamente? Non avevate nessun desiderio di aiutarla? Nessun sentimento di questo genere?'. La mia amica mi disse di no. La vita ridotta in quelle condizioni non lascia posto alla pietà". - Contro gli ottimisti, anche quando non siano dei burocrati dell’ottimismo come i giornalisti di Repubblica, ma siano invece degli ottimisti sinceri (ci sono pur stati onesti giacobini e bolscevichi entusiasti), ricordo il giudizio di Arthur Schopenhauer: “Non mi posso trattenere dall’affermare che per me ‘l’ottimismo’, quando non sia lo sproloquio di persone che nella loro angusta fronte non nascondono che parole, è un modo di pensare non solo assurdo, ma realmente ‘infame’, un amaro scherno per le sofferenze senza nome dell’umanità”.
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